giovedì 4 novembre 2010

Trastevere, storie da una sponda senza tempo...



Sandra Petrignani ci accompagna

tra i vicoli di Trastevere,

raccontandoci i segreti

di un quartiere unico,

da sempre crocevia

di cultura, arte, innovazione.


Un libro indimenticabile,

che raccoglie testimonianze e aneddoti,

ricostruendo la geografia di un luogo

che ha fatto della creatività

e della libertà i suoi stessi simboli


Ci sono libri che hanno dentro il dono profondo di una suggestione. Libri che ti prendono per mano, che ti accompagnano lungo la via, svelandoti le coordinate di un percorso. Il mondo, tra le loro pagine, riemerge come tra le brume accecanti di un’emozione, con cifre primordiali, forme sensuali che tali libri hanno il potere calviniano di ridisegnare sulle orme di una speciale consapevolezza.


Fin dalle prime pagine di E in mezzo il fiume (Edizioni Contromano Laterza), l’intenso volume che Sandra Petrignani dedica al quartiere romano di Trastevere, so già di avere tra le mani un libro speciale, importante, di quelli che amerò, che custodirò tra le cose care, che mi guiderà per giorni, e notti, nei miei numerosi viaggi. Troppo grandi l’emozione, il fascino, lo stupore di ritrovare nella scrittura il perimetro di un luogo che adoro, e che appartiene ormai abbondantemente al mio quotidiano.


Voglio che il libro mi introduca alle impressioni, e che siano le parole a fare da controcanto ai passi. Me lo porto dietro in una delle mie passeggiate dentro questo novembre ancora non troppo freddo. Su di me, quest’oggi, il cielo ha la consistenza spessa di un cristallo. E’ uno di quei rari pomeriggi in cui, stranamente, tutto sembra immobile, e l’aria di un’incredibile trasparenza.


Scivolo in direzione del fiume, rasentando il suo argine enorme, basso. E’ esattamente qui che ha inizio il viaggio che l’autrice mi fa compiere all’interno delle molteplici anime di Trastevere. Un’autrice che amo, che seguo da diversi anni, e che un giorno mi aveva fatto da guida attraverso le case di alcune indimenticabili scrittrici. La scrittrice abita qui – questo il titolo del suo libro, e lo pubblicava l’editore Neri Pozza.


Qualche anno più tardi, ritrovavo le meraviglie di quelle prime pagine in Care presenze (sempre Neri Pozza), altro suo titolo di successo. Era l’epoca dell’università, dei miei primi studi letterari. Ma la passione c’era già tutta. E la gratitudine. Da allora, non ho più scordato il potere toccante di quei percorsi e della sua scrittura. Un mistero che ho ritrovato intatto pure negli altri successivi lavori, e che nel tempo s’è confuso all’affetto, all’ammirazione.


Trastavere” scrive Sandra Petrignani nell’incipit del suo ultimo libro, “è l’unico quartiere di Roma che ha un rapporto stretto col fiume. Lo si capisce solo vicendoci; perfino quando abitavo sull’altra sponda, quella di Campo de’ Fiori, il fiume non esisteva per me come non esiste per i romani in genere. E’ lontano, ininfluente, dimenticato. Ora lo so, ora che vivo nel quartiere, il fiume appartiene a Trastevere, tutt’uno con esso, tutt’uno con un’idea antica della città.”


Quando mi trasferii a Roma – saranno ormai dieci anni – nell’arrivarci dalla Sicilia, era stato proprio questo senso di antichità a colpirmi, e la sensazione che dietro la città-fondale (scenario privilegiato dei primi amori letterari della mia adolescenza: da Pasolini a Elsa Morante, da Moravia a Sandro Penna, a Ingeborg Bachmann, ad Amelia Rosselli) se ne celassero infinite altre, pronte a dischiudersi nel fasto di un miraggio, rivivendo nell’allucinata metafisica di un verso, di una foto, un sogno a occhi aperti.


Sono le stesse emozioni che ritrovo in E in mezzo il fiume, il bellissimo libro di Sandra Petrignani. Ho percorso ormai l’ampio tratto di strada che da casa mia mi porta a Ponte Sisto. Nell’ombra scura del crepuscolo, i lampioni accesi che s’inseguono sui due stretti parapetti del ponte sono pacate linee di fuoco. E’ di qua, sulla parte destra del Tevere, che si apre l’intrico dei vicoli, mentre le pagine dipanano l’algebra sognante delle citazioni e dei ricordi.


Sandra racconta della gita in barca con l’amica Adriana Polveroni, attraverso le acque del fiume che l’antico Orazio definisce “dorato”. E la rievocazione cede immediatamente alle temperature stilistiche proprie dello scrivere letterario: l’annotazione si carica d’intensità, il tratto di spessore, e la scrittura si fa meravigliosamente poetica. Come, ad esempio, dove l’autrice ci parla della vegetazione acquatica che copre le sponde fluviali: “Molti alberi sorgono dall’acqua, mentre quelli in alto fanno pendere dalla strada fronde oscillanti giù per i muraglioni: tendono all’abbraccio, cercano l’intreccio dei rami gli uni con gli altri, un incontro, come a voler inghiottire l’intervento umano che ha creato quel muro di separazione, cancellando l’affondo diretto delle case nel fiume dove adesso guardavamo passare papere e canottieri.”


Sandra Petrignani possiede la capacità degli scrittori grandi: raccontare attraverso il calore di emozioni autentiche. La sua indagine si mescola alle testimonianze di voci più o meno note, disposte a offrire il loro contributo alla messa a fuoco di una calda anagrafe del cuore. E’ così che Susanna Tamaro ci parla delle “ciriole” che il vicino di casa teneva a spurgare in vasca da bagno, prima di cucinarle. O di un tempo magico, lontanissimo, in cui il Tevere era popolato di storioni, di cefali, di spigole e anguille “ciumarole”. Se chiudo gli occhi per un momento, mi sembra di vederla davvero tanta ricchezza, mentre la folla di giovani riunita nella caratteristica piazza Trilussa – davanti all’imponente palazzo del poeta – si leva in un brusio ubriacante, che fa pensare alla febbre operosa di un alveare.


Guardo giù, proprio sull’orizzonte: l’isola tiberina appare già, come un’immensa nave, ma preferisco spostarmi verso l’interno del quartiere, assecondando il tragitto esistenziale suggeritomi dal libro. Eccomi in Santa Maria, la vasta piazza dal meraviglioso fontanone che contempla una delle più antiche basiliche cittadine. E’ qui che opera don Matteo, ed è nei dintorni che sorge l’asilo per immigrati della Comunità di Sant’Egidio. Il racconto di Sandra Petrignani apre scorci significativi di umanità e confronto, attraverso i quali balena l’anima eterogenea e altruista del quartiere.


Il libro si tramuta in un puntuale corollario di storie - storie di uomini, di donne, che continuano a combattere nonostante tutto, nonostante il dolore, l’abbandono, l’indifferenza collettiva, difendendosi da una realtà che sempre più sembra essere diventata ostile, quando non razzista e violenta. Storie di coraggio e di voglia di vivere, come quella di Roberto, cresciuto in Svizzera e rimasto per strada a causa di dolorose vicissitudini famigliari. Storie che lasciano il segno, perché scritte sulla pelle del quotidiano, e intinte nel sangue disperato dell’esistere.


Aveva paura di morire” racconta Roberto all’autrice, parlando della madre gravemente ammalata, “e io cercavo di confortarla come potevo. Cercavo una spiegazione. Ho cominciato a interrogarmi sul senso della vita: non è possibile che nasciamo solo per morire, no? E che stiamo a fare, a perdere tempo? Ma insomma, lei è morta e io mi sono trovato senza casa – era della ditta per cui lavorava – e con un po’ di soldi che m’aveva lasciato e che ho bruciato rapidamente. Ho interrotto gli studi e sono tornato in Italia, e qui me sò perso… La strada è una guerra continua, ti possono rubare tutto, tutto il poco che c’hai, da un momento all’altro. Ma volano le pizze se vengono a prendermi le cose mie. E’ come in galera: ne acchiappi uno, lo massacri di botte e gli altri non ti toccano più. Però gli anni passano e non ho più la forza di prima.


E’ intorno a questo nucleo di autenticità che si regge il percorso simbolico e iniziatico di E in mezzo il fiume, in questo bisogno di empatia, questa necessità di ricerca dell’altro, in una mappatura che attraversa strade e piazze, circumnaviga territori personali, colma una domanda invisibile che sembra giungerci dalle stesse cose, dai ricordi traboccanti della gente, dall’epidermide millenaria e ipersensibile della città.


Nessuno è escluso dall’appassionante narrazione di Sandra Petrignani: né gli scrittori che hanno fatto di Trastevere meta di veri e propri pellegrinaggi (da Moravia a Elsa Morante, da Pasolini a Dario Bellezza) né gli attori o i registi (da Lucia Poli a Carmelo Bene, Federico Fellini e Nanni Moretti), passando attraverso gli spazi che hanno rappresentato la memoria artistica di Roma (pensiamo ai teatrini-cantine molto in voga negli anni Settanta – resistono l’Argot di Maurizio Panici e lo Spazio Uno di Manuela Morosini) o i tanti locali caratteristici che sono ancora oggi al centro di un’ammirazione nostalgica: ad esempio, il famoso ristorante “Sora Lella” aperto nel 1959 da Elena Fabrizi, sorella dell’attore Aldo e attrice lei stessa, indimenticabile nel ruolo di vecchia attaccabrighe in molti dei film di Carlo Verdone.


E in mezzo il fiume è il loro libro, perché di tutti racconta, perché tutti ritrae, con passione, semplicità e senza inutili retoriche. Il sentire poetico abita questi luoghi e questi personaggi, e l’atteggiamento della scrittrice nei confronti del quartiere è insieme quello dell’abitante ma pure quello assorto e stupito della viaggiatrice al cospetto della bellezza. “Digressioni a parte, mi trovo sotto Ponte Rotto, il primo in pietra della città, o ciò che ne rimane, seduta sui larghi e bassi gradini. Mi ci sdraio quasi, per godermi lo spettacolo di questo moncone di ponte che persino Michelangelo provò senza successo a tenere in piedi. Due vecchie fotografie della serie “Com’era Roma e com’è” mi fanno prendere atto del processo di civilizzazione del paesaggio. La vecchia Isola Tiberina da questa parte presentava un lembo di terra selvatica, entrava nell’acqua con una scabra superficie di roccia e le barchette dei pescatori la circondavano sonnolente. Oggi c’è un lindo piazzale con una scalinata piatta e graziosa, uno spazio per i turisti che possono rimirare, senza graffiarsi le gambe, il troncone dell’antico Ponte Emilio: quasi tutta l’isola non fosse altro che un’arena per contemplare quel che resta del passato.”


Conoscevo bene Sandra Petrignani, avendo molto amato i suoi libri precedenti. E in mezzo il fiume aggiunge qualcosa di speciale alla sua carriera: una nota, un tocco, un affetto che va ad armonizzarsi alle sfumature di un affresco ampio, corale, emotivo, da sempre prossimo ai confini intimi del sentire e alle risonanze che le sensazioni codificano sulla pagina quando riescono a ispirare le nostre storie. E' un libro che porterò con me, e che rileggerò, più volte. Ovunque sarò, ogni volta sarà come essere tornato a casa.

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Già col suo precedente libro, La scrittrice abita qui, lei ribadiva il legame prezioso e imprescindibile tra la sua scrittura letteraria e la magia dei luoghi, luoghi che abitiamo, che pensiamo, che ci mettono in contatto con parti uniche della nostra anima e del nostro essere. Come nasce in lei questa passione per i “luoghi”?


Un mio amico, scherzando ma non troppo, mi dava dell’«animista». Forse è la mia attitudine naturale credere che anche le pietre, e gli alberi, e gli animali a maggior ragione, abbiano un’«anima». La scienza può progredire e manipolare quanto vuole la natura, ma non è ancora riuscita a spiegare il mistero in cui siamo avvolti, il rapporto fra le cose, l’invisibile che parla continuamente intorno a noi. Uno scrittore che si rispetti dovrebbe ricordarsi che nelle sue antiche origini è stato un mago, uno sciamano, uno in grado di creare relazioni fra visibile e invisibile. In molti libri ho fatto parlare gli oggetti: nel senso che li ho interrogati e ho costruito storie intorno alla loro muta presenza. Nel Catalogo dei giocattoli, per esempio, un libro del 1988, e nella Scrittrice abita qui dove la vita di alcune grandi scrittrici europee del ‘900 viene ricostruita attraverso un viaggio nelle loro case-museo, fra i mobili, i libri, i ricordi, i ninnoli che amarono.


Il suo libro E in mezzo il fiume si apre parlando del Tevere e dell’idea viva e personale che ne hanno gli abitanti di Trastevere. E’ interessante l’angolazione che ha scelto per inaugurare questa riflessione, il modo attraverso cui il fiume diventa simbolo di identità, di appartenenza, quasi di orgoglio. Potremmo definirlo, in parte, anche un ottimo pretesto letterario di partenza per raccontare altro ed estendere la passione che alimenta la sua scrittura all’intera città?


No, l’intera Roma è altro dal suo centro, o meglio i suoi centri, che hanno essi stessi diverse personalità. Volevo fare perno su Trastevere, che è veramente qualcosa di unico, un paese all’interno di una città, come non succede, mi pare, dentro nessun’altra metropoli al mondo.


Qual è il rapporto di Sandra Petrignani con Roma? Cosa ha rappresentato questa città nella sua vicenda umana e artistica?


Sono cresciuta con l’idea che Roma fosse l’ombelico del mondo, la città più importante del pianeta. Me l’aveva messo in testa mia nonna, un’umbra innamorata della capitale e che ci viveva. Io sono cresciuta fino a sei/sette anni in un piccolo centro del nord, Piacenza; quando venivo a Roma dai nonni era una festa e sognavo di trasferirmici. Cosa che è poi accaduta. Nella giovinezza, come gran parte della mia generazione post-sessantottina, passavo le serate a Trastevere, frequentavo i cinema d’essai, i teatri underground. Trastevere è presente in diversi miei libri, in particolare nell’ultimo dove è addirittura centrale. Per questo un capitolo è dedicato a “Trastevere downtown”: ho scritto E in mezzo il fiume proprio per celebrare questo aspetto artistico e bohémien del quartiere.


Il concetto di “mappa”, o di “griglia”, si addice moltissimo alla struttura del suo libro. Partiamo dai titoli dei capitoli: Sul Tevere, Rive Droite, Piccolo cuore, Rive Gauche, Rive e Derive, Trastevere Downtown e Simmetrie… Qui ogni capitolo rappresenta la discesa, l’immersione in uno spazio circoscritto, sognante, filosofico, nel quale si stratificano memoria, storia, testimonianze, affetti. Crede che questo possa diventare un metodo affabulatorio estendibile pure ad altre città?


Non ho scritto pensando di inventare un metodo applicabile anche altrove. Per me ogni libro crea la sua peculiare struttura, si cerca le parole per dire quella storia precisa. Se dovessi ripetere come uno stampino la stessa griglia per altri racconti mi annoierei. Per questo non scrivo libri di genere e non ne leggo quasi mai: la prevedibilità di una struttura narrativa mi fa perdere interesse. Vedo che i miei libri fanno scuola: quando ho scritto Ultima India nessuno scrittore italiano vivente sembrava interessato al tema. Ora non ce n’è uno, si può dire, che rinunci dopo un viaggetto organizzato (magari) a dire la sua su quell’immenso complicato paese. E così La scrittrice abita qui: molti cercano di usare il mio metodo per raccontare i luoghi dove hanno vissuto gli scrittori. Ma non basta applicare una tecnica per creare la magia.


E in mezzo il fiume è soprattutto un saggio, ma è al tempo stesso un bellissimo romanzo del respirare spazi e luoghi del sogno. Possiamo affermarlo in virtù della ricchezza, dell’emotività, della partecipazione pulsante che si percepisce in una scrittura mai fiacca, ma sempre vivace, lampeggiante, piena di luce e di intuizioni. Truman Capote sosteneva accoratamente l’abbattimento della barriera discriminante tra “saggio” e “romanzo”, e il suo “A sangue freddo” ne costituisce l’esempio più mirabile. Lei cosa pensa in proposito? Come le piace pensare al libro che ha scritto?


Mi piacciono gli scrittori sottilmente innovatori, quelli che non si ripetono, quelli arditi, indipendenti nel giudizio, che non seguono le mode, ma semmai le inventano, che ascoltano soltanto la voce interiore, quelli che scrivono per motivazioni interiori e non pensando a come andare in classifica. Ecco, se assomiglio a questo ritratto, vuol dire che non ho fallito.


Tra le pagine si fa riferimento a una dimensione autentica, genuina, che nel tempo ha sposato la presenza di intellettuali del calibro di Laura Betti, Pier Paolo Pasolini, Dario Bellezza e Carmelo Bene a quella storica di persone comuni, di semplici abitanti della zona, rendendo amabile tale convivenza, ed esemplare il rispetto e lo scambio tra le due diverse dimensioni. Oggi quest’aria si respira ancora per le strade di Trastevere?


Come dice un mio personaggio, la fornaia Stefania Innocenti, per quanti cambiamenti abbia subito, Trastevere è sempre Trastevere, un altrove caratteristico, uguale a niente altro. Tutto ciò che è oltre il Tevere è «dellà». Ma lo si può capire solo vivendoci. Chi viene nel quartiere per passare una serata, magari nella confusione estrema del sabato sera, probabilmente coglie solo l’aspetto turistico, finto e caotico della zona. A Trastevere, per apprezzarlo, devi passeggiare al mattino, frequentare i suoi baretti, in qualche caso anche un po’ malfamati, fare amicizia con i clochard, confrontarti con la realtà potente della comunità di Sant’Egidio, spostarti a piedi o in bicicletta.


E poi c’è l’isola, col suo antico sapore mitico, la chiesa e l’ospedale. Lei fa riferimento a un sentimento di “solitudine” che nell’isola si percepisce più che in altri punti della città. In un passo del libro lei scrive: “Resto sola, sola come se oltre l’Isola Tiberina non ci fosse più una città.” Quanto ritiene necessario un simile sentimento contemplativo alla sua personale vocazione alla scrittura?


Se fossi una suora, sarei senz’altro del tipo contemplativo. Sono pigra e sognante per carattere. Mia madre mi diceva spesso quando ero piccola: «Non t’incantare». Me lo diceva come rimprovero. Invece credo che in quella mia capacità d’incantarmi, che non ho mai perso, sia una parte buona di me. Io m’incanto e m’innamoro spesso: dei luoghi, delle persone, dei libri che leggo, degli animali di cui mi circondo. Mi piace molto la solitudine, se posso contrapporla alla socialità, di cui anche sento un certo bisogno. Ma più per poterla contrapporre alla solitudine che in se stessa. Mi piace poter scegliere la solitudine, insomma. L’Isola Tiberina è un buon simbolo cittadino di luogo appartato, pur stando proprio in mezzo al fiume, alla città, al passaggio da una sponda all’altra.


Personalmente, ho molto amato pure un altro suo libro, intitolato Care Presenze. Nei racconti che le pagine contenevano si percepiva l’irrompere di un mistero che diveniva l’atmosfera del libro stesso e il filo rosso che legava le storie in esso contenute. Il mistero si muta nella sua scrittura in narrazione, in suggestione, in incanto. E’ un mistero indagato attraverso le più impensabili e originali pieghe del quotidiano, un mistero che seduce il lettore. Dove e come nasceva l’idea di quella sua bellissima opera?


Anche io credo che Care presenze sia il mio libro più complesso e ardito, anche se è un po’ manchevole nella parte della «cornice» che contiene tutte le storie. Se lo riscrivessi, lavorerei a rendere più autonoma e convincente quella storia lì, mentre tutte le altre funzionano perfettamente. Nasce dalla voglia di scrivere storie di fantasmi, un po’ per gioco e un po’ sul serio. Fantasmi contemporanei, anche psicologici. Ci sono molte capriole divertenti in quel libro: capriole di struttura, di linguaggio, di punti di vista. C’è il segreto rapporto fra vivi e morti, fra diverse dimensioni dell’essere. C’è soprattutto una gran voglia di raccontare per raccontare, uno sbizzarrirsi nel raccontare. Lo definirei proprio un libro a briglia sciolta.


Il libro che lei dedica a Trastevere ritrae dall’interno la vita artistica e bohémien del quartiere, attraverso un innesto di citazioni e riferimenti, di aneddoti e ricordi individuali. Sicuramente si tratta di un’indagine ma pure di un viaggio, un meraviglioso itinerario nei luoghi e nei territori del cuore. Che emozioni le ha procurato compiere questa ricerca e ripercorrere tracce che appartengono sicuramente anche al suo passato?


Ci sono zone del nostro passato che finiscono nel dimenticatoio perché non c’è un filo di continuità col presente. Per esempio il mio assiduo frequentare i teatrini negli anni ’70 lo consideravo un po’ un capitolo chiuso che non si riverbera significativamente sul mio oggi. Rivivere quegli anni per scriverne, attraverso i racconti che mi ha fatto Lucia Poli, è stato recuperare una zona d’ombra, ricucire un pezzetto di me a tutto il resto.


I libri – quando sono ben scritti – riescono a generare miracoli e casi che hanno dell’incredibile. Tra le sue pagine si racconta di una singolare guida utilizzata da Elsa Morante in un periodo particolarmente travagliato della sua esistenza. Poi, qualche tempo addietro, è accaduto un fatto abbastanza magico: un omaggio che le giungeva per posta, e ora questa guida è tra le sue mani e conserva sulle sue pagine i segni delle stagioni come cicatrici. Mi piacerebbe che rievocasse questo interessante aneddoto per i lettori di “Verso il faro”.


Giorni fa la lettrice che mi ha fatto questo graditissimo dono si è presentata in carne e ossa a una presentazione del libro e ho potuto esprimerle direttamente la mia gratitudine. Sono alcune delle magie che producono i libri: l’autore e i lettori soddisfatti di un libro costituiscono una specie di società segreta, di clan. Ci si capisce e si condivide qualcosa di autentico. Uno scrittore sopravvive grazie a questo tipo di lettori, quelli veri, quelli che il libro non si limitano a comprarlo, ma che davvero lo leggono e lo amano. Penso che, nei casi migliori, i miei libri siano la parte più risolta di me e che quando un lettore mi dice che leggermi lo ha aiutato in qualche modo a capire qualcosa di sé o di una sua situazione, si è messo in moto uno scambio inconscio che ha a che fare con il ruolo sciamanico di chi scrive. Ci si sente, allora, strumenti di qualcosa che sfugge alla volontà, qualcosa che appartiene a quell’invisibile su cui non abbiamo potestà razionale. Ma tutto questo non ha niente a vedere con la bellezza o bruttezza di un testo, con le sue qualità letterarie che un critico ha il compito di valutare. Testi orrendi possono fare del bene, mentre opere artisticamente significative possono lasciare indifferenti i non addetti ai lavori. Sono due categorie diverse, che solo qualche volta, felicemente, s’incontrano.


Come molti artisti e intellettuali lei ha scelto Trastevere per vivere. Ma prima di arrivarci, ha pure abitato in altre zone di Roma e avrà conosciuto di sicuro dimensioni differenti. Com’è quell’altra Roma? Cosa le è rimasto di quel tempo e di quei luoghi?


Ho abitato a Monte Sacro (la vecchia «Città Giardino»), al quartiere Trieste e in quello Africano, non mi è rimasto molto di nessuno se non la distanza dal centro, dove in realtà ho sempre gravitato. Per un periodo ho vissuto a Campo de’Fiori, ma erano gli anni di piombo e non era piacevole. Durante le manifestazioni di protesta si viveva un clima da coprifuoco, chiudevano i negozi, c’era un fuggi fuggi.


C’è un personaggio – un artista, uno scrittore, un attore – qualcuno che ha maggiormente influenzato il suo rapporto con Roma?


Da Giulio Einaudi, un torinese che si trovava a suo agio a Roma, ho imparato alcuni buoni indirizzi di ristoranti: era un buongustaio dai gusti semplici e raffinati. Ma Roma per me si identificava con Alberto Moravia, almeno una certa Roma colta e borghese. Mi piaceva accompagnarlo al cinema. Anche se disturbava tutti perché, essendo un po’ sordo, continuava a chiedere: «Che ha detto? Che ha detto?» quando perdeva qualche battuta del film, la gente non protestava: era un monumento cittadino!


Qualcuno che invece avrebbe tanto voluto incontrare e che purtroppo non ha fatto in tempo a conoscere? Roma non è anche fatta di occasioni, di incroci, destini che si toccano per poi allontanarsi e perdersi per sempre?


Elsa Morante. La incontrai una volta alla Casina Valadier: era con un amico e io con Ruggero Guarini che me la presentò. Ma ero giovane e intimidita, non riuscii a dirle una parola. E gliene avrei voluto dire tante, tantissime. La adoravo.


Io ho sempre pensato che le radici non siano solo quelle legate ai luoghi in cui si verifica la nostra venuta al mondo. Ce ne sono altre, legate alle nascite interiori delle nostre vite. Radici legate ai luoghi che scopriamo, nei quali per la prima volta abbiamo capito chi siamo, cosa amiamo, cosa vogliamo essere. Qual è il suo rapporto con questo tema? Quanto lo avverte nelle storie che racconta?


Le radici sono la lingua che parliamo, anche i dialetti. Se ascolto il dialetto emiliano mi sento a casa, pur non sapendolo parlare. L’India è un paese che ha contato molto nella mia vita, ho fatto molti viaggi laggiù, ci ho scritto su un libro e posso dire di aver capito qualcosa di me stessa che non sapevo percorrendola in lungo e in largo. Ma le radici sono dove sei nato, dove sei cresciuto, le parole che hai imparato da piccolo. Quando pronunciavo mantra in sanscrito non mi risuonavano dentro come un Padrenostro…


Mi domando come sarà Trastevere domani. In futuro quali suggestioni il quartiere regalerà ancora ai suoi abitanti? E soprattutto: secondo lei quanto sarà forte e sentita l’atmosfera che ha fatto di questo luogo un rifugio di artisti e intellettuali?


Più di una persona che s’incontra nel mio libro su Roma mi ha detto: per quanti cambiamenti abbia subito, Trastevere è sempre la stessa, non cambierà mai. Lo credo anch’io.


Trastevere mi sembra anche un quartiere ricco di animali. Uccelli, gatti, cani soprattutto, che passeggiano nelle sue piazze o si rincorrono nei suoi parchi. E credo che si avverta anche una specie di rispetto, di sacralità dell’animale, che sempre più purtroppo altrove vediamo offesa o violentata. Non immagineresti mai piazza Santa Maria, o il ritrovo di San Callisto, o San Cosimato stessa, senza la compagnia poetica degli amici animali e i loro richiami. Si potrebbe partire proprio da questo punto di Roma per intensificare la sensibilizzazione delle coscienze in merito a un aspetto tanto urgente e irrinunciabile del vivere civile?


Non insegni a nessuno ad amare le bestie se non ci arriva da solo. Però uno degli aspetti che mi rende cara Trastevere è proprio la sua «densità animale».


Cara Sandra, sta già lavorando a un nuovo romanzo o a qualche altro libro? E’ possibile avere qualche anticipazione?


Ho quattro o cinque progetti cui penso in continuazione. Ma non riesco a farne prevalere uno e mettere gli altri in stand-by. Immobile per eccesso di fantasia, diciamo così.


Luigi La Rosa




la foto dell'autrice è di

Pasquale Comegna,

che si ringrazia vivamente



le immagini adoperate sono tratte

dai seguenti siti:


http://www.tesoridiroma.net/galleria/ponti_roma/foto/hpnrotto01.

http://www.google.it/imgres?imgurl=http://iguide.travel/photos/Rome/Trastevere-3.

http://www.officinadelleartiantiche.it/Immagini/foto_roma_003.

martedì 14 settembre 2010

taccuino parigino (prima giornata)


divagazioni di percorso
di un viaggio a Parigi
tra suggestioni e fantasmi
sulla scorta dei suoi artisti
e del suo invidiabile passato
...


sotto il cielo grigio di Montparnasse

inseguendo le leggendarie tracce di Kiki,

di Hemingway e di Modigliani
all'ombra di caffè e atelier

e tra le tombe di uno dei

più celebri cimiteri d'Europa...


Approdare a Parigi sbucando da una delle tante fermate della metro è un'esperienza irripetibile.
Un'uscita dalle acque buie dell'attesa, un germogliare nello splendore un pò grigio del mattino. E' così che con Alessio scegliamo di arrivarci, l'ultimo lunedì di un agosto che mi porto ancora scritto sulla pelle. Montparnasse, il mitico monte delle Muse. Lo scelgo tra tutti i quartieri cittadini con la volontà precisa d'inseguire vecchi fantasmi, spettri meravigliosi di cui mi sono lungamente nutrito, e che continuano ad aleggiarmi intorno. Hemingway, Modigliani, Colette. Sono solo alcuni di essi, e mi pare d'intravederli già nei tagli di luce che piovono giù nervosi dagli ippocastani lungo i boulevard. Per ciascuno ci saranno lunghe giornate, e passeggiate nel vento freddo dell'autunno che incombe. E' qui che hanno vissuto, qui che hanno amato e si sono persi. Mi sembra quasi incredibile, tanta è l'emozione. Provo un brivido indefinibile al pensiero di calpestare le stesse foglie, gli stessi marciapiedi, di navigare tra gli stessi alberi secolari che disegnano l'oscura mattinata. Eccomi, penso. Sono qui, per aspettarvi. Vi seguo senza parlare.

Il primo monumento affettivo dei ricordi va alla celebre Rotonde. I prezzi, l'aggressione turistica, la frenesia affaristica del nostro tempo mi mettono un pò in guardia: non è più il luogo che cercavo, ma gli incanti dell'immaginazione ci sono tutti: basta chiudere gli occhi per ritrovarli, intatti, come in una vecchia posa d'epoca. Soutine, Max Jacob, Apollinaire, Trockij, Lenin, Victor Lisbion - celebre patrono del locale che concorse a lanciare la moda del bistrot - e ancora Kisling, Foujita, Cocteau, Pierre Benoît, Kiki, Modigliani e Utrillo. A nemmeno cinquanta metri di distanza, spiccano i colori elettrici di altri ritrovi che fecero storia: la Sélect, la Dôme, e il celebre ristorante la Cupole, su strade che convergono tutte sull'affollato crocevia.

E' difficile strapparsi al trambusto dei passanti, del chiasso automobilistico, delle folle di turisti che sciamano da un punto all'altro della zona, ma è necessario, per vedere con occhi nuovi, e assorbire energie e stimoli che Parigi sembra ancora nascondere sotto le apparenze della sua epidermide secolare. In questa nuova visione, sono le parole di Corrado Augias, tra le pagine del suo ricco e puntale I segreti di Parigi (Mondadori), a rivelarmi il fondale effettivo dentro cui s'annidano ricordi e testimonianze.

«In Rue Campagne-Première, poco più a sud, si può ancora vedere un edificio del 1911 nel quale molti pittori ebbero i loro studi: ampie finestre per la luce e soprattutto, cosa davvero insolita per l'epoca, riscaldamento centrale, telefono, elettricità. La modernità degli impianti ne fece un immobile prestigioso e alla moda. Quasi adiacente a esso c'è l'hotel Istria - corridoi stretti, stanze piccole, modesto fino alla malinconia - in cui alloggiarono fra gli altri Kisling, Picabia, Rilke, Tzara, Satie, De Chirico, una colonia di pittori e poeti tenuti insieme dal desiderio comune di rompere le regole della tradizione.
Al numero 3 della stessa strada, apriva i battenti modesti ma provvidenziali, un bistrot, potremmo definirlo un'osteria, tenuto dalla leggendaria Rosalia Tobia, donna di cui s'è conservato a lungo il ricordo, che era arrivata a Parigi nel 1887, appena ven
tenne, cameriera della principessa Ruspoli. In seguito aveva posato come modella per William Adolphe Bouguereau, che aveva lo studio nel quartiere, al 75 di rue Notre-Dame-des-Champs, e che amava dipingere opulente nudità femminili. [...] Con il trascorrere degli anni, Rosalia (diventata Rosalie) aveva abbandonato il mestiere di modella trasformandosi in mère nourricière, in nutrice, quasi sempre a credito, di artisti affamati. I suoi pentoloni di pastasciutta, che cucinava aiutata dal figlio Luigi, sfamarono, a partire dal 1909, per quasi un ventennio e con rara equità, i muratori dei cantieri per la costruzione delle nuove case nella zona e i pittori che facevano capolino dai loro gelidi atelier col ventre "bucato" da una dieta involontaria.»

Il racconto di Augias è seducente, sinuoso, risuona ancora dentro di me, che inseguo volti di fantasmi nella frizzante aria del mattino. Il primo in cui mi imbatto è quello di una donna bellissima, Alice Prin, entrata di diritto nella storia dell'arte col famoso appellativo di Kiki di Montparnasse. E' fuggita a un destino imposto - quello di fornaia al quale l'umile madre avrebbe voluto consacrarla - per inseguirne uno più grande, più clamoroso, col suo corpo elegante sotto i lunghi cappotti neri contro i rigidi inverni del nord, con la sua sensualità ostentata e un pò provocatoria, e una vicenda umana che Ernest Hemingway - suo amante per un certo periodo e prefatore ammirevole dell'unica autobiografia ricavata da lettere e diari - non mancherà di ritrarre con parole di sincera ammirazione.

Abbandono Kiki tra i rumorosi frequentatori del suo bistrot prediletto, lascio Modigliani e Jeanne - il cosidetto Cygne de Livourne e l'infelice compagna dalla storia tragica - alla solitudine spaventosa dei loro giorni maledetti, e vago, approdando finalmente all'alberghetto che ho scelto per questo primo approdo alla capitale del gusto e della bellezza. Il nome è indicativo di ciò che voglio, dei sogni che intendo avvalorare. L'insegna è posta in alto, sull'ingresso, e recita in caratteri estremamente moderni Montparnasse Rive Gauche. La riva degli artisti, mi dico. Mi piace. Siamo al 22 di rue Hippoliyte Maindron. Penultima camera del terzo piano. L'ambiente è pulito, silenzioso, misuratamente accogliente. L'affaccio splendido: una traiettoria di tetti in fondo alla quale, accanto a un minuscolo giardino recintato, riesco a scorgere lo studio che fu di Giacometti. Nel ripassarci davanti, due volte al giorno, mi soffermo sulla targa che sembra gridare alla distrazione dei passanti. Sarà qui che alloggeremo. Il cielo, alto oltre le fioriture di ferro della finestra, è chiaro, innocente, sembra brillare. Solo qualche nube lontana ci riporta alla vocazione climatica caratteristica della città di Rimbaud e Verlaine.

Spiegato il frusciante lenzuolo della cartina e tirate fuori le recenti annotazioni di percorso mi accorgo che la geografia degli spazi - quelli lungamente inseguiti, attesi, desiderati - è ben diversa da quella che propinano le guide di più o meno vecchia data. Parigi è la mia, la nostra Parigi, una città che somiglia veramente poco a quella indicata dai propositi turistici. Sarebbe bello disegnarne un'altra, sulla scorta delle suggestioni, delle illusioni, delle aspettative, dei sogni, una città fatta di tante altre città diverse, una città nella città, ritagliata a se stessa, sottratta, fiorita come un miracoloso sboccio.

Scegliamo di cominciare esattamente dalla fine, dalle tombe, ultimo contatto con coloro per cui siamo venuti. Fra i tre cimiteri parigini partiamo da quello del quartiere - il cimitero di Montparnasse - che ci accoglie nel primo mattino languidamente piovoso di permanenza in città. Ci arriviamo dall'ingresso laterale, ma stamani niente mappe. Inadempienze comunali impediscono al visitatore un facile movimento tra i resti illustri. Fisso l'assonnato custode che sporge la testa dalla guardiola, mostrando l'enorme tabellone che sorge come una lavagna a qualche passo di distanza.

Primo sguardo: primo solletico allo stomaco. Charles Baudelaire, l'angelo nero dello spleen, il sognante cantore del male, l'alato Satana delle lettere francesi riposa lungo un pendio, in un intrico di lapidi e croci poco visibile a un'occhiata disattenta. E' il primo morso vero, la prima ferita che Parigi mi procura. Mi chiedo se sia rispettoso fotografare, ma non resisto alla tentazione, e credo di udirla davvero, la sua toccante supplica alla bellezza. Inferno o cielo, che importa? Al fondo del mistero per trovare il nuovo!

I resti mortali del massimo poeta dell'Ottocento sono stati composti insieme a quelli della sua famiglia. La madre. L'orribile patrigno. L'uomo che inflisse all'animo ancora acerbo del giovane genio la prima inguaribile cicatrice. Ma i doni di coloro che mi hanno preceduto in questo mio cammino sono davvero toccanti: accendisigari, piante, biglietti, sassolini, fogli stracciati contenenti messaggi traboccanti di tenerezza. Cerco di prenderne nota mentalmente. Ancora una volta l'immaginazione prevale e le immagini si cristallizzano sotto gli occhi sedotti, e mi ritrovo nel piccolo drappello che incede sotto la pioggia invernale, al termine di un'esistenza del tutto fuor del comune, rielaborata dall'acuto giudizio di Jean-Paul Sartre.

Il grande scrittore e filosofo parigino scrive infatti di Baudelaire: "Non ha avuto la vita che meritava. Certo non meritava quella madre, quelle eterne angustie finanziarie, quel consiglio di famiglia, quall'amante tirchia, né quella sifilide; e che di più ingiusto della sua fine prematura? Tuttavia, riflettendoci, un dubbio sorge: l'uomo, a studiarlo, non è senza falle né, si direbbe, senza contraddizioni: questo perverso ha adottato una volta per tutte la più banale e la più rigida delle morali; questo raffinato frequenta le più miserabili prostitute, questo solitario ha una paura spaventosa della solitudine, non esce mai senza un amico, aspira a una casa, a una vita famigliare; questo apologista dello sforzo è un "abulico" incapace di costringersi a un lavoro regolare; ha lanciato degli inviti al viaggio, anelato all'evasione, sognato paesi sconosciuti, ma esitava sei mesi prima di partire per Honfleur e l'unico viaggio che abbia fatto gli è parso un lungo supplizio."

Proprio sul versante diametralmente opposto della collina, un'altra tomba è quella che chiama all'incanto. A scovarla, nell'intrico del sovrabbondante panorama cimiteriale, è l'attempato signore parigino che scorgiamo quasi per caso, e che intuisce la nostra incertezza, venendoci incontro e indicando col dito un punto poco più avanti, dove le croci si abbassano e le statue si addensano in una lenta danza senza vita. Per di qua, dice il vecchio, senza neppure degnarci d'uno sguardo, e senza domandarci chi cerchiamo. Ha capito, e procede, catturato dalla serietà della missione. Lo seguiamo senza aggiungere nulla, segretamente grati della gentilezza.

L'altro grande "malato" della letteratura frances
e, il poeta della Senna e del mondo dei canottieri, l'uomo scisso, dalle due anime, una lucente come il candore, l'altra nera come la più orribile delle notti, colui che Savinio definì come "altro" da se stesso, Guy de Maupassant, riposa sotto l'imponente altare di pietra sorretto da due colonne di altezza umana, al centro delle quali spicca la scultura di uno sgargiante libro rosso. Mi soffermo per un attimo sulla gonfia rosa scarlatta che qualcuno ha lasciato accanto al libro. Penso alle mani, a quelle mani piene di riconoscenza e mi lascio intenerire dalla mistica delle testimonianze e dei ricordi.

Quando sollevo gli occhi dalla tomba, nel merletto verdebosco delle foglie le facciate dei palazzi mi fanno pensare alla bellezza - bellezza delle case, dei tetti, bellezza di questo incontro magnifico tra morte e vita, tra lapidi e città, tra memoria e presente. Il cimitero di Montparnasse - ma non è il solo - si trova racchiuso da un recinto di bassissime mura: gli ampi finestroni, gli oblò incassati nelle maestose superfici d'ardesia, le metalliche aperture degli edifici - metalliche e dure come la luce del mattino, come la metallica passione d'amore di Baudelaire, come i metallici infissi che scrivono ghirigori di ferro battuto sulla linea di qualsiasi orizzonte - tutto mi parla di un dialogo ininterrotto, amoroso, quella confessione ronzante che riprende ogni giorno, a indicare una qualche religione degli affetti. Non mi stupisce che la verde rotonda che divide gli spazi del cimitero accolga frotte di turisti che siedono sulle panchine ad addentare appetitosi tramezzini. Qui la morte è lontana dai punitivi tremori cattolici di geli eterni e di inestinguibili incendi infernali, e la pace del pomeriggio è incrinata solo dallo stridere di un corvo: nero, regale, elegante pure esso, mentre saltella appresso a una foglia accartocciata dall'arrivo di un autunno prematuro.

Lo seguiamo per un tratto breve, e m'impongo di vincere la mia ancestrale angoscia per i volatili. Alessio mi precede lungo marmi che riportano alla mente altri celebri figli di questa città unica al mondo: Eugène Ionesco, Philippe Noiret, Julio Cortàzar. Poi, il corvo vola lontano, fino a sparire nell'arabesco buio dei rami, dentro cui sembra che l'ultima luce si vada spegnendo. Il mio primo giorno a Parigi si conclude, lasciandomi dentro una tensione e un languore sordo, qualcosa che è incapace di diventare dolore. Victor Hugo parla di una città dello spirito, nella quale continuare a credere nonostante tutte le sue pretese di trasformismo. E' una Parigi carnale, d'altri tempi, che quest'oggi sono certo d'aver incontrato. Sorrido osservando le morbide onde di fango che ancora ricoprono il fondo dei miei mocassini. Un dono della passeggiata, mi dico. E che bel dono. Sono certo che domani ce ne saranno altri.


la foto di Kiki de Montparnasse è di proprietà del sito:
http://members.xoom.it/man_ray/kiki.jpg

la foto di Charles Baudelaire è di proprietà del sito:
http:/www.statueinresina.com/statue_su_commissione/Charles_Baudelaire.jpg

le citazioni provengono dalle seguenti opere:

Corrado Augias, I segreti di Parigi, Mondadori;
Jean-Paul Sartre, Baudelaire, trad. di Jacopo Darca, Mondadori;

le altre foto sono di Alessio Grillo, che si ringrazia
per la gentile collaborazione


venerdì 25 giugno 2010

Piera Mattei e la poesia degli attimi...

Non dirò chi
ne è il destinatario
nessun altro dovrà raccoglierle
sono state scelte
una a una, una tela
che il prato aveva disteso
per la sua festa.
(Le parole)
una passione inellettuale sorretta da una coscienza lucida, laica e fortemente critica in nome della libertà di pensiero

Il ricordo e l’affetto di certi amici è spesso legato alle abitudini, agli incontri, alle occasioni attraverso cui li viviamo, e scopriamo che sono divenuti insostituibili per le nostre vite. Ogni volta che penso a Piera Mattei – alla sua dolcezza, alla straordinaria limpidezza intellettuale del suo pensiero – certi luoghi si ridisegnano immancabilmente davanti agli occhi, e con essi, certe sensazioni, certe emozioni, certi ricordi.
Roma, anzitutto. La stuporosa meraviglia di questa città. E via Giulia, con la teoria dei suoi antichi palazzoni di pietra, sui cornicioni dei quali vecchi angeli cinquecenteschi continuano a vorticare in una chimerica danza di luce e di splendore. E Campo dei Fiori, ma non quella turistica e ultra affollata delle orge notturne dei sabati e delle domeniche di festa, ma la piazza dei silenzi e delle solitudini meridiane, dove canta l’acqua e il raschiare dei gabbiani è un diapason di elegante cristallo, oltre il quale la città pare sul punto di svegliarsi, sulla cantilena di antiche nenie popolari.
I luoghi della nostra amicizia ruotano intorno a questa parte magica e profodamente suggestiva della capitale, e si legano alle passeggiate che nel corso degli anni hanno costellato gli appuntamenti, gli incontri, le vitali chiacchierate sulla letteratura, sull’arte, sulla volgarità dei tempi che tutto offusca. Discorsi lunghi quanto le notti, appassionati, e vari quanto varia e complessa è la produzione stessa di Piera Mattei, espressa attraverso paradigmi e linguaggi differenti, che vanno specificamente dalla poesia alla prosa, dalla saggistica al giornalismo, alla traduzione, al teatro, e ancora alla fotografia e alla rappresentazione pittorica.
Tutto sembra confluire in un tratto espressivo unico, lucido, originale, che sceglie di volta in volta le occasioni migliori - le più naturali - per esprimersi, per divenire sigillo d’arte. C’è sempre un’ispirazione, un dettato psichico impulsivo dietro queste manifestazioni della parola. E quasi mai un progetto unico, lento, studiato e protratto nel tempo.
Mi piace aprire la mia riflessione con una delle più belle poesie della sua ultima raccolta (Oleandri, in L’equazione e la nuvola, Manni 2009), dove gli spazi della mente si tramutano velocemente in ascolto, e la parola sembra prenderci per mano, portarci con sé, condurci in un altrove che solo il poeta può percepire nella sua ideale portata. La poesia è questo: un'intuizione profonda, una luce che sale dalla voragine e che si spande, parlandoci di mondi lontani.
non dalla finestra nell’aperto / vedo oleandri // sono solo immagini della mente / oleandri ad albero // offrono la loro ombra rosata / a un gatto striato // e vedo – giacché la mente può questo - / vedo del gatto i pensieri // li leggo quasi fossero stampati / nell’impercettibile / movimento delle orecchie // si prepara a occupare / più comodi spazi dentro la casa / e ancora di più nella mia mente”.

Piera Mattei si esprime per “immagini della mente”, e la penna intinta nella densa materia pulsante della realtà si colora tutto d’un tratto di sfumature nuove, accensioni della durata d'infiniti istanti. Sono solo questi attimi, questi barlumi luminosi e perfetti a raccontare l’immane complessità dell’essere, atomi di incanto o di sgomento che si aprono e chiudono tra le righe lasciandoci percepire l’impossibilità di una trama narrativa unica, compatta, forzata dalla volontà uniformante del creatore.
La durata della visione è puramente percettiva, ed è quello che rimane di questa improvvisa luce dopo l’accecante risalita, laddove le linee del pensiero sfumano già in memorie, in allucinazioni, in voci lontane, che la pagina ha il potere di fissare. Come quelle delle fanciulle rappresentate in Gli alberi di Rodin, lirica di una bellezza indescrivibile, che testimonia la profonda aderenza della parola alle immagini interiori cristallizzate.

Il canto dei volatili animali / rende sicure le fanciulle / che siano veri alberi quei giganti / disciplinati che graziosi fremono / insieme dal basso verso l’alto / e filtrano luce / brillata dal temporale notturno. / Troppo belli perché godendo già di se stesse / non li ignorino le fanciulle. / Così la notte chiudendo i cancelli / si lasciano andare, scompongono / i rami, ripensano / le fanciulle che per compito abbozzano / sui taccuini i nudi corpi virili. / Sussurrano: / “Oh, noi, gli alberi, / siamo le statue più belle!”, / a vicenda si adulano.

Immagini estremamente vivide sono anche quelle che costellano gli intelligentissimi racconti di Melanconia animale (Manni, 2008), nei quali l’idea dell’attraversamento detta un vero e proprio principio di poetica, e le possibilità del caso – e delle incredibili geometrie che esso determina nella vita accidentale degli individui – guadagnano una centralità creativa nelle esperienze narrate dall’autrice, permeandole di lucide percezioni che diventano l’essenza stessa della contemplazione. Oltre questa contemplazione si aprono i territori freddi della morte, che pure gli animali avvertono, contagiati dalla millenaria frequentazione degli umani. Ci tocca, ci sconvolge, ci addolora pertanto la quieta malinconia delle bestie, semplice e muta, dotata di distaccato decoro, bella, sottile nei suoi intenti, mai sguaiata nei modi e nelle cifre.
Se ripenso ai luoghi – i luoghi della città, i luoghi dell’anima – non posso non ritornare alle pagine di uno dei testi più deliziosi della Mattei: I poeti e la città (Il bisonte 2009), serie di brevi saggi dedicati ai grandi poeti del passato, in rapporto alla città eterna che ha fatto da cornice, da nutrimento, da sfondo alla creazione delle loro opere. Bachmann, Palazzeschi, Rilke, Tasso, Keats, Alfieri e Metastasio: sono solo alcuni degli artisti intorno ai quali la penna colta e puntuale dell’autrice si è soffermata, con un piglio fortemente narrativo, e quel rispetto per i dati biografici e la verità storica dei testi che da sempre caratterizza per qualità e finezza ogni suo scritto.
Fascinazioni che tornano in alcuni dei suoi precedenti lavori, come la raccolta di racconti Nord (Manni 2004), e ancora i versi de La materia invisibile (Manni 2005). C’è una vita nascosta, misteriosa, pullulante, che le parole hanno il potere di riportare alla superficie della coscienza.

Le parole come gli amanti / si trattengono nell’ombra / finché le snida la passione / in piena luce rotolano / come lacrime / trasparenti.” (Le parole).

Le labbra del poeta possiedono il potere nascosto di ricondurre alla bianca accecante nudità della pagina lo splendore intrinseco delle parole. Ma la vita è fin troppo breve, anfibia, e dura giusto il tempo di una fuga dal silenzio: “Chi osserva non visto / il movimento delle mie labbra? / quelle parole non vogliono / attori che le atteggino / stirandone i nervi. / Hanno la vita di girini / neonati in una pozza / si stanno destando / ai primi tepori / d’un maggio tardivo.” (Le parole).

Ecco cosa sembra essere la poesia - questa poesia: un frullare di vita nel poco calore di una primavera tardiva. Il poeta conserva il suo segreto e lo custodisce a prezzo dell'esistenza stessa, perché le parole hanno corpi fragilissimi, che temono la violenza degli attori e la curiosità del mondo. Corpi che vibrano, che sussultano, e trasmettono un brivido leggero prima di spegnersi, nulla pure essi nel vasto nulla eterno che hanno intorno.
Quando penso alla produzione di Piera Mattei, prima ancora dell'ammirazione per la sua poliedricità e la vasta cultura che permea ogni suo lavoro letterario, un sentimento fondamentale è quello che mi colpisce: il grande rispetto per la verità, e l’impegno laico incrollabile nel suo ricercarla, laddove essa si annidi, sotto qualunque strato di menzogne, al di là delle facili mode di stagione, dei luoghi comuni più beceri del momento, in una volontà precisa, eterogenea, sicura, che si forgia sulla tradizione critica della scienza e sul gusto del bello, binomio che malamente si coniuga con la volgarità imperante del nostro tempo.
In qualche misura Piera Mattei preferisce rimanerne fuori. Preferisce essere altro. La ammiro molto per questa sua scelta radicale e salvifica. Preferisce coltivare la propria vocazione alla bellezza senza lasciarsi intimorire dai facili proclami del mondo editoriale, prestando impegno a un giuramento solido verso se stessa e verso la propria onestà intellettuale.
Le nostre passeggiate raggiungono i luoghi, li sfiorano, li rasentano, ma poi sentono il bisogno di evadere altrove, come fumo, o pioggia, tramutandosi in immagini che mi piace serbare a lungo dentro di me, dopo averla salutata sulla porta di casa. Ogni volta è un rituale che si ripete, che rimanda alla prossima occasione d'affetto. Alcune di queste immagini sono vive, le sento palpitare come i girini della poesia, sotto ali di vento. Molte sono divenute la sostanza risonante della sua letteratura.

Partiamo dall'essenza più intima della tua arte. La tua è una scrittura fatta di situazioni, di spunti momentanei, di accensioni, in un certo senso priva di un filo sistematico. Tutto questo nasce da una precisa volontà di poetica?
Caro Luigi, come sai, pubblico raccolte di racconti brevi, di poesie, di articoli e saggi critici, mescolo spesso i vari generi tra loro. Ho parlato più volte con te di questa mia convinzione: c'è bisogno di molto studio e disciplina per arrivare alla nota giusta, al gesto essenziale. E rispondo con una domanda alla tua domanda: cosa intendi per volontà poetica? Un progetto esterno, volontaristico, a priori? No, non c'è per me, e non può esserci. Penso che la scrittura sia la voce stessa del suo autore. L'esperienza, lo studio, la cultura ne sono un presupposto essenziale, ma per chi legge devono risultare assolutamente inavvertibili, altrimenti si comunica solo il ridicolo. La mia scrittura è sempre molto attenta a evitare sottolineature, aggettivazioni eccessive. Cerco di mantenere superlativi e enfasi a livello zero. La meraviglia per quanto ho visto o sentito e voglio comunicare deve scaturire dalla pagina. E' sempre lo stesso discorso, non deve apparire la preparazione, lo sforzo, come diceva Borges deve sembrare che la pagina si sia scritta da sé. La discrezione come regola della scrittura. Come altre volte ti ho detto: se dovessi scegliere tra il fatto di pubblicare un libro che sia inserito nelle classifiche dei più venduti, o rimanere a lungo nella mente di un solo, per un'immagine o una frase assolutamente legata alla mia voce, di gran lunga preferirei la seconda alternativa. Credo però che chiunque abbia la pazienza di leggere i libri che ho scritto riesca a riconoscere la mia voce, a trovare quella profonda coerenza senza la quale non c'è scrittura. Questa coerenza non è progettuale. E' il dono della scrittura, che implica disposizione, "lungo studio e grande amore". Ora, non proprio contro corrente, ma contro la moda o la passione del romanzo lungo, oltre alle mie argomentazioni, vorrei citare quelle di scrittori noti come Sebastiano Vassalli, già autore di romanzi ad ambientazione storica che afferma nell'introduzione al suo ultimo libro di racconti che quella misura gli sembra oggi, più del romanzo, adatta a dire il presente. Anche Giulio Ferroni trova che la misura del racconto riesca a "toccare più da vicino il senso della globalizzazione puntiforme in cui siamo catturati", che la forma "breve del racconto, guardato spesso con sospetto dagli editori, sia oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell'esperienza" che "proprio nel proiettare a diversi livelli questi frantumi… il racconto si fa carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica". Ferroni cita poi i nomi storici di Calvino e Manganelli, ma aggiunge quindi Celati, Tabucchi, Pier Vittorio Tondelli, Ermanno Cavazzoni, Antonio Debenedetti e molti altri contemporanei. (Giulio Ferroni – Scritture a perdere - la letteratura negli anni zero, Laterza editori). Quanto alla mancanza di un filo sistematico, mi riconosco piuttosto, come già ti dicevo, la disponibilità alla contaminazione, viva oggi in numerosi autori.

La scrittura narrativa, quella saggistica, la poetica, e ancora la pittura, la fotografia, la recitazione. Quale di queste diverse anime prevale sulle altre, o comunque rappresenta maggiormente la tua vocazione artistica?
Potrei dirti anche che canto come un usignolo, ma solo quando sono per conto mio? Allora? questo non conta, non contano le attività en amateur, anche se dovessi raggiungere lì un livello alto. E poi ho recitato solo quando si trattava di una regia in scena, di mettere in scena un montaggio di testi con allieve-attrici di lingua francese, che intendevo così trascinare verso una passione per la letteratura italiana. Quanto alla fotografia, sono veramente una dilettante. Devo sottolineare qui che ritengo la consapevolezza essenziale a ogni forma di arte, alla scrittura in particolare, per questo, credo, si sono sempre destinate al fallimento le prove di scrittura automatica. Se trovo una bellissima pagina di un diario dimenticato, non può trattarsi di un'opera, lì non c'è un autore, c'è solo di un fortunoso o fortunato ritrovamento. Victor Hugo amava dipingere a inchiostro, ma resta uno scrittore che dipingeva. Amo le mie pitture ad acqua su carta di riso ma, vedi, non mi sono, fino a qui, mai proposta in una mostra e non so se lo farò mai. La mia identità è nella scrittura. Quale genere di scrittura? Questo è secondario, credo. Del resto i generi possono mescolarsi tra loro e di fatto lo fanno, non da adesso. Per esempio, con termine di nuovo conio, parliamo di autofiction, cioè della scelta di non attenersi strettamente all'autobiografia o al frammento autobiografico, ma neppure a un racconto del tutto fittizio, come spesso ho fatto nella mia ultima raccolta Melanconia animale. Nonostante il nome nuovo, dobbiamo constatare che il genere ha radici antiche, e ha un esemplare eccellente nella Recherche proustiana, dove il narratore Marcel corrisponde solo in parte all'autore, intrecciando dati della sua esperienza con l'invenzione. Quanto poi alla commistione di spunti critici, diario, e brani creativi c'è stato un libro straordinario nell'Ottocento che continuamente li intrecciava e si chiama Zibaldone. Ma venendo alla cronaca, quanto alla commistione di critica e narrazione, ho letto di recente un'intervista a Emanuele Trevi e Armando Colasanti. Il primo afferma: "Il dualismo critico/scrittore non ha senso, praticare la specializzazione impoverisce". Ancora più drastico Colasanti: "Solo la stupidità divide prosa da poesia, critica, cinema, teatro: lo spirito usa tutti gli idiomi… La nostra grande tradizione è fondata sul superamento dei generi… Ma oggi si legge proprio il genere." Condivido se non il tono piuttosto aggressivo, certo il contenuto di queste dichiarazioni (Leggere: tutti, maggio 2010).

Ritieni che questa scelta di eclettismo appartenga anche a un determinato modo di concepire la propria persona e il proprio universo esistenziale?
Nella mia vita non c'è alcuna scelta di eclettismo. Da sempre, ancora da prima che cominciassi a pubblicare, ho sentito il mio destino nella scrittura, anche se, ancora oggi, mi lascio tentare da varie forme di espressione. Come dicevano i greci? Kalagatòs. Quanto è bello è etico. Quando ho dovuto scegliere i miei studi ho preferito la filosofia agli studi letterari. Avevo la presunzione di saperne già abbastanza di letteratura. La riflessione sul nostro posto nel mondo, accanto agli altri viventi, è molto presente nei miei libri. Sento molto fortemente i rapporti tra arte, etica, scienza, religioni. Devo dire tuttavia che un discorso esplicito circa l'impegno non riesco a inserirlo nei miei racconti e nelle mie poesie, l'enfasi e lo scrupolo di contestualizzare mi trascinerebbero. Mi ritaglio per questo altri spazi, come la rivista on line Lucreziana 2008.

Il tema del viaggio rappresenta una costante della tua produzione letteraria. Viaggi fisici ma pure viaggi spirituali, interiori, spostamenti intorno ai concetti di luogo e tempo. Che rapporto ha Piera Mattei con questa dimensione? Cosa significa andare incontro all'altrove?
Ho parlato molte volte del tema del viaggio, anche nelle note che spesso accompagnano i miei libri. Perciò, per non ripetermi preferirei qui farmi prestare la voce da Ernestina Pellegrini, professore di Letteratura contemporanea all'Università di Firenze, che alla presentazione del mio ultimo libro di poesie presso l'Archivio di Stato di quella città ha detto tra l'altro: "I luoghi sono anche al centro di L’equazione e la nuvola, una raccolta di poesie che è, a mio giudizio, il libro più importante, più interessante della scrittrice. I luoghi, lo spazio, la natura, i suoi abitatori notturni e diurni, i cieli attraversati da nuvole, abitati da dei pagani come da angeli: Erice, la città di Venere Ericina, Naflio (nell’Argolide), Agadir, in Marocco; Duino, Milano, Nervi, e poi Parigi, Chicago, Miami. Architetture che variano, faune e flore molteplici, che sono veri, concreti, palpabili, ricostruiti in delicatissime mappe immaginarie, in un impressionismo senza sbavature (c’è – come dire - una geometria delle impressioni; un nitore di marca quasi orientale; quasi da haiku passato dentro l’arte di Monet). Del resto si sa dell’interesse profondo di Piera Mattei per l’arte e la letteratura giapponese, così come il suo amore per la letteratura e l’arte francese. Sono paesaggi descritti con la precisione minuta del dettaglio, colti nella dimensione raccolta ed effimera della quotidianità; eppure questi luoghi hanno sempre una qualità e una luce metafisica, risultano elegantemente impalpabili, delicatissimi, e sono mossi da un’attrazione siderale per ciò che è al di là. La nuvola e l’equazione, appunto, la natura e la scienza. Comunque c’è sempre un punto di fuga nella poesia verso l’oltre. Tutto è comunque presentificato. Non c’è memoria: c’è l’attimo e c’è l’eterno nei paesaggi di Piera Mattei".

E' una dimensione che appartiene anche alla tua esperienza di vita? Ci racconti qualcosa dei tuoi personali luoghi dell'anima o di quelle città dove hai vissuto e di cui poi hai scritto?
Vorrei che quanto scrivo parlasse per me. Non sono molto portata a narrarmi, anche se la più viva attenzione di chi ti ascolta, lo so, si accende al racconto delle vicende personali. Dalle città e dai libri raccoglie racconti di viaggio e critiche alle letterature che i luoghi dove ho viaggiato esprimevano. Più recentemente I poeti e la città descrive invece i segni che i poeti hanno concretamente lasciato, nelle strade, nei palazzi, negli spazi urbani dove hanno vissuto. Ma anche nei libri di racconti, soprattutto in Nord e in Melanconia animale chi scrive o parla è spesso in viaggio.

Qual è il tuo rapporto con la realtà? La scrittura ha il potere di ricrearla, o preferisci semplicemente fotografarla, metterla a nudo secondo la tua percezione?
La scrittura inventa la realtà, sempre. Nel senso etimologico. Trova quello che altri non sa trovare o non vede, e lo addita. Anche Flaubert, certo non faceva sentire "molto" il suo giudizio su Madame Bovary, anzi s'identificava, ma non nell'accezione patetica di tanta letteratura di oggi. Infine la fotografia stessa non è che un modo di vedere quanto ti è presente. Scegli un'angolazione, una luce, poi anche lo strumento fa la sua parte. Una foto non è mai una copia della realtà. Tentativi di riprodurre esattamente la realtà come alcuni decenni fa l'école du regard, producono un effetto opposto perché la scrittura ha tempi diversi dalla fotografia e, quanto più è dietro a riprodurre i movimenti dell'occhio, tanto più perde terreno, si dilunga tradendo la simultaneità. Comunque riprodurre la realtà è sempre stato lontanissimo dal mio modo di sentire. Io vedo sempre aldilà, immagino storie, delle quali solo alcune ne scrivo. A tutte le ore del giorno varie storie suscitano la mia sorpresa. Non come certi scrittori che cercano intenzionalmente le avventure come materia per la loro scrittura. Quelli li trovo un poco perversi e pericolosi.

Ci sono autori ai quali rimani maggiormente legata e che sono stati insostituibili nella tua formazione intellettuale?
Alcuni nomi li ho fatti già fatti: Barthes, Borges, Flaubert. Eppure tutti questi sono venuti in un secondo tempo. Da bambina leggevo libri d'avventura e poi i grandi russi, ma più di Tolstoj o di Cechov, di cui ora adoro la scrittura, amavo allora Dostoevkij e non escludo che sia cominciata da lì una mia tendenza alla riflessione sul ruolo della religione nell'etica. Poi, con gli studi di filosofia si è consolidata l'ammirazione per la scrittura aforistica di Nietzsche. Umano troppo umano è ancora tra le mie letture preferite. Mi rendo conto di avere fin qui trascurato le donne. Allora cominciamo con la "divina dolce ridente Saffo", letta al liceo nella versione di Quasimodo, ma ancora prima tradotta, sia per compito che per passione, dal testo originale, con meraviglia ed emozione per la grazia libera e perfetta di quei frammenti. E poi ho continuato così, privilegiando nelle donne la poesia. Quindi Dickinson, direi meglio conosciuta che più amata della Woolf. Infine devo dirti che oggi, dopo molti anni come coredattrice di una importante rivista di poesia, mi trovo a leggere molta bella poesia scritta da donne. Anche se poi – questo è un discorso grave – poche donne figurano nelle antologie.

Il tuo massimo amore rimane Dante Alighieri. Come nasce questa passione e quanto ha influenzato nel tempo le tue scelte, i tuoi percorsi creativi? Cosa diresti ai giovani che non lo conoscono o che spesso mistificano o sottovalutano la sua figura?
Non solo il mio massimo amore, ma un autore riconosciuto come massimo dalla letteratura mondiale. Proprio oggi leggevo una rivista di poesia argentina contemporanea dove Dante era citato a più riprese, con il massimo rispetto e una totale passione. Certo, Dante. La Vita nuova, per esempio e il Convivio. Esemplarmente la letteratura italiana comincia così, con testi dove prosa e poesia, autobiografia e finzione s'intrecciano con estrema naturalezza. Quale esempio più alto si può trovare, di commistione tra racconto autobiografico, storico, di verità e al tempo stesso d'invenzione assoluta della Commedia? Dante ci conduce con lui nei regni dell'aldilà, ed è tutto verissimo solo nella sua altissima immaginazione. Eliot, Borges lo hanno studiato appassionatamente e miracolosamente si sono innamorati del testo originale ancora prima di conoscere bene la lingua italiana. Qualcosa di simile, di quasi magico è avvenuto a me. Dicevo che non amo parlare di episodi della mia vita ma questo voglio raccontarlo. Avevo appena finito la quinta elementare e mi trovavo come parcheggiata in una scuola-collegio di studentesse più grandi. Nella mia solitudine mi soccorse, sotto un banco a portata della mia curiosità, una copia del Paradiso e cominciai a leggerla e ne imparai a memoria una buona parte del primo canto. Capivo tutto. E si trattava del Paradiso. Ancora oggi sono in grado di ripetere a memoria quelle terzine e alcuni altri episodi che studiai successivamente. Per questo mi meraviglio quando sento dire che la Divina Commedia è difficile da capire! Occorre saperla leggere. Del resto in anni recenti Robero Benigni è riuscito a riempire le piazze con la sua recita di Dante.

Non credi chi l'Italia sia un paese sostanzialmente abitato da poeti? Il romanzo qui non ha una tradizione paragonabile a quella di altre dimensioni estere. Da cosa può dipendere questo secondo te?
Dicevo appunto che basta conoscere la letteratura italiana per rendersi conto che, a parte Petronio e altri autori tardo latini, nella nostra tradizione c'è la poesia, il racconto, l'epopea cavalleresca, la letteratura scientifica e i sermoni, prima di arrivare a Casanova. Occorre arrivare all'Ottocento e all'imitazione dei romantici francesi e inglesi per affermare il romanzo. Certo dall'Ottocento in poi di romanzi se ne sono scritti ma non abbiamo mai eguagliato in questo genere altre letterature europee. Invece nella poesia soprattutto Dante e Petrarca non hanno eguali. E venendo ad oggi, forse troppi si riconoscono poeti, pensando di avere quella cifra nel DNA. Ma certo, con l'industria culturale, gli equilibri si sono spostati. La poesia, tranne casi particolari, che appunto fanno riferimento anche a straordinarie esperienze di vita, come nel caso della Merini, non conosce, da noi, grande diffusione. Questo non toglie che il paese pulluli di poeti.

Uno dei temi centrali della tua opera rimane il rapporto con la scienza. Quanto credi sia importante ribadirlo soprattutto in un'epoca di preoccupante ritorno a integralismi politici e religiosi?
Il rapporto con la scienza è importante sotto il profilo intellettuale e sotto il profilo politico. Mi meraviglio sempre molto di quanto il culto delle immagini abbia forza nel nostro paese, trascinando con sé l'impossibilità di essere logici. Torno da un recente viaggio a Padova dove ho visitato la basilica del Santo. Quando vedo la gente genuflettersi davanti a statue di gesso, marmo, legno o altro materiale, baciarle con devozione mi chiedo come possa essere smarrita la memoria del pezzo di bruta materia che erano. Invece molti credono che una divinità o un santo taumaturgo abbia deciso di rinserrarsi proprio lì. Non serve la scienza per restare scettici. Il fatto è che molti hanno bisogno di statue miracolose e altri guadagnano su questo bisogno. La scienza aiuta a sentire la vita palpitare intorno e dentro di noi, a rispettarla in ogni sua forma, facendoci vergognare oltre che del razzismo anche dell'antropocentrismo. Tutta la mia scrittura si basa su questi presupposti.

La figura di Ipazia sta tornando in questi giorni alla ribalta, grazie a un film e ad alcuni libri che le sono stati dedicati. E' una donna coraggiosa, una studiosa, che paga con la vita le sue scelte di libertà mentale. Ti sei mai occupata di questa geniale figura, vittima dell'incomprensione e della violenza più fanatica?
Sì, certo. Bisognerebbe studiare meglio quel periodo di storia quando l'impero romano da società aperta a tutte le religioni, decise di stabilire che il cristianesimo è l'unica religione di stato. Studiare la storia dei martiri pagani, delle conversioni forzate. Ho fatto una conferenza su Ipazia, ma non ne ho scritto mai se non in una nota su Lucreziana 2008.

Cosa vuol dire essere un "libero" pensatore oggi nel nostro Paese? Quanto è difficile rimanerlo?
Liberi pensatori erano i libertini, che nel Cinquecento si opponevano alla Chiesa e volevano avere pensieri e comportamenti liberi. Furono perseguitati ma nel Settecento riaffiorarono, contribuendo al sorgere dell'Illuminismo. Penso spesso che la mentalità degli intellettuali del Sette e dell'Ottocento era più libera di quella di molti intellettuali di oggi, che non vogliono scandalizzare e soprattutto vogliono essere amici dei potenti. Credo che se una buona parte di chi pensa con la propria testa si liberasse della televisione, ci sarebbe una rivoluzione incruenta, ma vera rivoluzione. In proposito fornisco un altro piccolo dato biografico: l'apparecchio televisivo non ha mai passato la soglia della mia casa e davvero non me ne sento priva. Credo che questo mi permetta di essere libera dalla pervasività dei persuasori occulti o manifesti. Per quanto concerne la lingua e le parole, credo che sia una misura che limita l'inquinamento della volgarità e mediocrità verbale.

Tu hai pure vissuto bellissime esperienze di attrice e di regista, in anni in cui il femminismo italiano apriva delle strade notevoli negli ambienti culturali della capitale. Cosa ricordi di quell'epoca? Cosa potresti raccontarci?
Durante il periodo del femminismo storico si era aperto a Roma un teatro in via della Maddalena ed era gestito da un gruppo femminile, letterate che scrivevano testi e li mettevano in scena. Alternando la mia attività di giornalista culturale al teatro ho scritto, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, per quel teatro, Monstra te esse matrem - L'assoluto materno e Gertude Stein: Sole controsole, due testi assai diversi, uno basato sulla libera rielaborazione di esperienze personali, l'altro incentrato sulla storia d'amore tra Alice B. Toklas e Gertrude Stein, basato sui testi della Stein medesima. In nessuno dei due spettacoli comparivo come attrice, mentre solo nel primo avevo collaborato anche alla regia. In quel periodo ero anche in scena, per un teatro-laboratorio che curavo presso il Teatro Alberico, in Via Alberico II. Mettevo in scena un mio racconto, I vicini di casa, e m'incrociavo, noi al pomeriggio, lui alla sera, con Roberto Benigni che recitava lì, in un nudo spazio, sotto una lampadina, il testo che aveva scritto con Giuseppe Bertolucci: Berlinguer ti voglio bene. Anche noi volevamo molto bene a Roberto e certo ci rendevamo conto di quanto fosse bravo, anche se forse non avremmo immaginato come rapidamente sarebbe schizzato lontano. In quel periodo mi mostravo anche in occasione di teatro di strada, dove la Maddalena si univa a gruppi femminili stranieri. Più tardi per tre anni successivi, sono tornata in scena con un mio gruppo di allievi–attori francesi, a cui facevo recitare testi italiani. Ero lì come regista sulla scena, un po' alla maniera di Kantor. L'opera più recente di scrittura teatrale è stato di un monologo basato su un montaggio di testi del Petrarca, scritto nel 2004, in occasione del settimo centenario della nascita del poeta. S'intitola L'invidia degli amici, ed è stato pubblicato sulla rivista "pagine".

Un'altra sfera importante del tuo lavoro è quella che riguarda la traduzione. Tu hai tradotto poeti importanti. Quanto è stato utile all'interno della tua carriera? Cosa ti offre l'opportunità di tradurre un'altra voce?
Ho già parlato di esperienze remote e preparatorie, come le traduzioni dei lirici greci. Amavo molto anche allora, nell'adolescenza, trasportarmi in luoghi e personaggi altri, altre voci da sovrapporre alla mia. La traduzione è sempre per me, una vacanza, un viaggio, un riposo e insieme un impegno forte, etico. Per poco vivo nell'altra voce, nel rispetto di quella voce, dalla quale mi lascio penetrare. Per me, materialista convinta, questa è la forza dello spirito. E' quella materia invisibile, come suona il titolo di una mia raccolta di poesie, che ci raggiunge attraverso tempi e spazi che noi non riusciamo a percorrere. Scrivevo in I poeti e la città che a Roma, le tombe di Keats e Shelley, due poeti romantici decisamente materialisti, sono meritamente in uno dei luoghi più intensamente spirituali della città, nel silenzio e tra il verde del cimitero presso la Piramide Cestia.

Tu hai sempre vissuto a Roma, in via Giulia, una storica via della capitale i cui cambiamenti anche urbanistici sono fondamentali per comprendere la più ampia metamorfosi della cultura e del costume nel nostro Paese. Come hai visto cambiare la città e la splendida via in cui risiedi nel corso degli ultimi trent'anni?
Via Giulia ha compiuto nel 2008 i suoi cinquecento anni, festeggiati con discrezione. L'ultimo mutamento sul suo tracciato era stata una ferita rimasta aperta all'altezza del Ponte Mazzini, durante l'ultimo periodo fascista. Non so bene quale fosse il progetto che sottintendeva quella demolizione che è rimasta così fino ad ora. Solo recentemente si è parlato di sanare quel vulnus secondo criteri utilitaristici progettando un parcheggio interrato. Ma i lavori sembrano fermi. A Roma oggi, non si costruisce più con la rapidità degli imperatori o dei papi. Quello che mi diverte è che, evidentemente, con le mie recriminazioni sui mutamenti che hanno cambiato la posizione e il significato di questa strada – i lungotevere e Corso Vittorio costruiti alla fine dell'Ottocento, quando ancora questa non era la "mia strada" – sono riuscita a dare anche ad altri l'impressione che questi torti fossero stati inflitti in tempi recenti. Questo fa parte della mia natura immaginativa: cammino per la strada e cerco di vederla come era quando l'accesso al fiume era libero. Spero che le scavatrici per i parcheggi si fermino, spero che tolgano le barriere di plastica del cantiere e che su questa via si torni presto a respirare la sua aria un po' imbronciata, un po' museale. In proposito, Luigi, ricordi? ho dedicato proprio a te e al sogno dell'atmosfera antica su questa strada una poesia della mia ultima raccolta L'equazione e la nuvola.

Qualche ricordo della Roma che non c'è più. Ci sono situazioni, esperienze, stimoli che ti piacerebbe rivivere?
Ricordo, alla prima crisi energetica, le domeniche a piedi. Se il tempo era bello, fresco e luminoso, una vera festa! Ora il turismo mi sembra eccessivo, invadente e anche un po' ottuso e distruttivo. Così penso almeno quando vedo le lunghe file che, pioggia o vento, restano ferme in attesa di entrare ai Musei Vaticani tra fogli di carta e lattine abbandonate in giro. Questa obbligatorietà della visita a quei musei è nata solo dopo i restauri della cappella Sistina e i capitali spesi per quell'opera. Capitali che adesso saranno abbondantemente rientrati.

Prossimi progetti ai quali hai già in mente di lavorare?
Ho parecchi progetti ma preferisco non parlarne. Sembra non porti bene.

Luigi La Rosa

Nelle foto, dall'alto verso il basso, Piera Mattei appare:

foto 1: sotto la neve, a Campo dei Fiori;
foto 2: con Luigi La Rosa alla libreria Odradek di Roma;
foto 3: da sinistra con Walter Veltroni, Pietro Spataro, Pietro Ingrao, Valerio Magrelli;
foto 4: con Valerio Magrelli;
foto 5: con Vito Riviello alla Cabot University di Roma;
Il resto delle foto sono di proprietà dell'autrice e sono state pubblicate su gentile concessione. In merito invece alle immagini di Dante, di Ipazia e del Cimitero dei poeti, le foto sono di proprietà dei seguenti siti, pertanto nel caso in cui i siti proprietari avanzassero delle rimostranze ci dichiariamo immediatamente disposti a rimuoverle:

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