giovedì 12 aprile 2012

Aida Festa, un'eroina precaria con la passione per le opere d'arte...
















Un dipinto importante e nascosto,

un paio di misteriose scarpe verdi,

una bambina dagli strani poteri

e una protagonista d'eccezione,

in una vicenda che si dipana

tra il castello di Baia e una Napoli

meravigliosamente passionale e sofferta...


"La paura della lince" di Antonella Cilento,

un breve e raffinato capolavoro di scrittura,

che riesce a raccontare, come pochi altri libri,

la condizione di precarietà e di marginalità

del nostro difficile presente...



Il fondale è magnetico, suggestivo, e sembra affondare le sue radici in un passato mitico. Sull'orizzonte, il Castello Aragonese di Baia: risonante, antico quanto una promessa, grondante suggesioni. E' esattamente da qui che prende l'avvio l'avventura di Aida Festa, la protagonista del nuovo, atteso romanzo di Antonella Cilento - La paura della lince (Rogiosi Editore). Un romanzo noir in piena regola, che si apre a molteplici differenti dimensioni, non ultima quella del gotico puro, caricandosi di rimandi e significati ai quali lo stile incisivo e abilissimo dell'autrice sembra sin dalle prime pagine conferire timbro e profondità di visione.


Aida è una donna semplice, agganciata a un presente incerto, pieno di ombre. Da mesi lavora come precaria presso il locale Museo Archeologico del castello e qualche volta nella scuola pubblica. In realtà, il suo impiego somiglia piuttosto a una sorta di volontariato, essendo il suo stipendio congelato fino a data da definirsi. Aida è dunque una di noi - una delle vittime di questo difficile tempo, una delle tante donne alla ricerca di qualche possibilità di futuro, che arrancano per giungere sane e salve a fine giornata. Tuttavia ha carattere Aida, e una particolare forza d'animo, una solitità ammirevole. E' grazie a questo carattere che trova il coraggio di tirare avanti, senza rinunciare ai sogni e a quelle passioni che alimentano la vita.


Il primo grande accidente del romanzo ci sorprende a pochissime pagine dall'incipit. E ha a che fare con un incendio descritto magnificamente dall'autrice: alte fiamme che ingoiano e avvolgono le mura annerite dai secoli, dalle quali sta cercando scampo il povero vecchio custode del Castello. Nino D'Esposito le corre incontro, cerca di abbracciarla, il corpo ricoperto di fuoco, urlando a gola spiegata, la giacca invasa dalle fiamme. La sua fuga è insieme l'odore del barbecue e il fetore della paura. Siamo sopraffatti dalle impressioni grevi di un mattino che sentiamo già diverso da tutti gli altri, e che in qualche misura cambierà per sempre la vita di Aida e dei tanti personaggi del racconto. Perché è solo l'inizio di un dramma che sta per compiersi e che si manifesterà apertamente attraverso i due delitti che insanguineranno la storia: due cadaveri, due morti che ridisegnano allucinatamente i contorni di un reale alquanto cupo. Aida si ritrova pertanto al centro di una vicenda più grande di lei - non può che guardarsi intorno, che aprire gli occhi davanti a un mistero che prende gradatamente forma, imponendole di precipitare nell'imperscrutabile gorgo delle sue dinamiche.


Aida non si rassegna, non rinuncia mai a capire, all'interno di una città che assume una dimensione vagamente spettrale, ma che al tempo stesso non rinnega, neppure per un istante, la sua storica vocazione di caleidoscopio umano e culturale. Ad accompagnare i movimenti della protagonista, nel sottofondo piovoso di un clima di stampo solennemente nordico, un padre "cialtrone" e il ricordo dolente di una sorella tossicodipendente dall'esistenza tormentata, che insieme alla figura di Domenico Nunnaro - poliziotto prestante e dall'aria sottilmente nervosa - e della piccola Spigola - bambina prodigiosa, sulla quale viene gettata un'aura d'inquietante segretezza - rappresenta una delle figure meglio delineate e caratterizzate dell'intero romanzo. Aida indaga, con sospetto, con attenzione, senza trascurare nulla, e interrogandosi più volte sul possesso di un misterioso dipinto che finisce con l'annodare parecchie delle intricate fila della storia.


La paura della lince, offerto in una gradevole veste editoriale e presentato da una copertina di impressionante eloquenza, è uno dei libri più belli e più riusciti di Antonella Cilento, per il senso appassionante di un ritmo continuo, fluido, inesorabile, che accompagna il lettore di pagina in pagina, senza mai abbandonarlo, senza mai consentirgli di sfuggire al richiamo della parola. Si rimane catturati dall'intelligenza della trama e dell'intreccio, quanto dalla cura dello stile, dal pregio della lingua, dalle fluorescenze metaforiche che ci conducono di visione in visione, d'immagine in immagine, attraverso una galleria di colori e linee dalla natura liquida d'uno sciabordìo, tra scenari d'impalcature cromatiche e mirabolanti corpi sonori. E' la lingua che avevamo già amato nei precedenti romanzi della scrittrice napoletana, questo pastiche crudo e insieme poetico, nudo e sontuoso, altissimo, umorale, celeste e impregnato della terra più nera.


A far da custode a un simile magisterio narrativo la presenza nobilissima e pressoché costante dell'arte - questa Vestale eterea, questa cruciale parvenza, che sempre abita le storie della Cilento, con la leggerezza dolce e un pò frastornante degli spettri d'acqua. Si esce dal libro con la voglia che la storia ricominci - non ci sono cadute di stile, né sottrazioni emotive, ma il crescendo prosegue fino al soggiogante finale, nel quale vengono decrittate le cifre oscure dell'intero enigma. In tempi di magra letteraria e di scadente editoria contemporanea, Antonella Cilento fa ancora suo l'impegno d'una letteratura alta, la fede nel narrare grandi storie, e la volontà di differenziarsi, lasciando dietro di sé un segno profondo e duraturo. Non possiamo che augurarle ogni successo.


Dopo Neronapoletano, con La paura della lince è già la seconda volta che affronti il genere noir, e pure qui con sapienti riferimenti al mondo dell'arte, del collezionismo, della pittura. Dove nasce la passione per questo particolare genere letterario?

La paura della Lince e Neronapoletano hanno alcuni punti in comune, in effetti: in Neronapoletano c'erano i personaggi dei quadri sovrapposti alle persone reali, in questo un solo quadro, un San Giovanni nel deserto mai dipinto, nella realtà, da Guido Reni, che influenza, e non poco, le avventure dei protagonisti: il mondo dell'arte è sempre un motivo ispirativo quando scrivo, un leit motiv in ogni mio libro. D'altro canto, i due romanzi hanno anche in comune la città e una protagonista femminile, sia pur con molte differenze anche in termini di stile. Non ho una specifica passione per il noir (anzi), anche se sono stata una lettrice di gialli ma soprattutto del tradizionale gotico, quello che affonda le radici nel romanticismo tedesco o nella letteratura russa e inglese dell'Ottocento. La sfida era comporre un gotico napoletano ambientato tutto nel presente, con il ritmo di un poliziesco senza che il poliziesco o il genere "commissariale" che va tanto di moda fossero riferimenti diretti... Insomma, molto mistero ma anche tanta quotidianità.


Il personaggio di Aida Festa è estremamente attuale, realistico, umano. E' una figura che ha molto del presente, delle sue problematiche, delle sue contraddizioni sociali. La povertà, la precarietà, la mancanza di lavoro e lo sfruttamento. Trovo interessante questa coniugazione tra personaggio e sguardo sulla realtà contemporanea. E' una dimensione che senti particolarmente?

Aida è una vittima predestinata, è fragile sotto il profilo sociale - la sua precarietà, quella in cui tanti di noi vivono - ma riesce a diventare la mano armata dell'indagine: mi piaceva che a condurre l'investigazione fosse una non allineata, una che con la polizia non c'entra e anzi che prova diffidenza verso il falco che finisce poi con l'affiancarla, di cui, in fondo, sospetta anche. La realtà viene così trasfigurata nell'invenzione, come deve sempre essere: le Aide Festa esistono, ce ne sono tante e la vera avventura che devono affrontare è sopravvivere alla giornata, a presidi pazzi, a istituzioni truffaldine, ai furbi, a un padre un pò cialtrone, all'assenza di certezze, alla precarietà dei sentimenti, all'impossibilità di avere la vita che si vorrebbe, alla povertà travestita da benessere...


Oltre all'abilità nel tessere trame e alla vivacità dell'in-treccio narrativo, ritengo che le figure del libro siano disegnate con grande intuizione e perspicacia. Anche la figura di Elena, sorella della protagonista, ci offre un magistrale esempio di personaggio negativo - e forse proprio in virtù di questo - estremamente vero, seducente. Che importanza hanno i "cattivi" all'interno dei tuoi libri? E quanto è difficile renderli sulla pagina?

I “cattivi”, lo dice l’etimo della parola latina, sono prigionieri, sono catturati dall’incapacità di uscire da un cliché, dall’essere sconfitti dalla colpa e dal conflitto che li trascina. Sono ossessivi e progettuali nella loro ostinazione: insomma, sono molto facili da animare e sono il sale delle storie. Un cattivo vero, o un cattivo che non si rivela tale, è senz’altro una forza per la trama: il bene, o meglio, l’ordinario è molto più difficile da realizzare sul piano stilistico. Conto molto sui personaggi ambigui, su quelli che hanno avuto la possibilità di scegliere e hanno scelto lo stesso il peggio...


Quali sono state le modalità di scrittura del libro? Ha avuto tempi lunghi, elaborazioni complesse, oppure il romanzo è emerso fluidamente dalla tua penna?

La paura della lince è un libro scritto in velocità: un anno scarso di lavorazione. Quando l’editore me lo ha commissionato, chiedendomi un romanzo di genere, cosa per me non precisamente consueta, ho deciso di divertirmi. Avevo già una sessantina di pagine di trama che avevo accumulato senza sapere ancora che ne avrei fatto e le ho riconvertite in questa storia. Però, come mi succede anche nei romanzi scritti in anni e anni di lavoro, Aida e i suoi fantasmi, i luoghi, i personaggi tutti, anche i più secondari, hanno preteso un’attenzione estrema e hanno continuato a mutare aspetto man mano che l’intreccio prendeva forma, tanto che alcune soluzioni sono arrivate quasi in corner, quasi con la stessa sorpresa che il lettore vive leggendo.


Possiamo aspettarci una terza puntata "nera" all'interno della tua articolata e ricca produzione? Se sì, ci anticiperesti qualcosa?

Mah! La paura della lince si conclude (non diciamo come!) con l'eventualità di una prosecuzione: benché detesti le storie seriali non posso negare che Aida&company non abbiano potenzialità in questo senso. Tanto che mentre finivo di scrivere questo romanzo avevo già in mente una o due nuove avventure che potrebbero seguire agilmente a questa prima puntata. Non ho idea davvero se ce ne sarà l'occasione o l'opportunità, intanto sto lavorando ad altro.


Cosa rappresenta questo libro all'interno della tua carriera di narratrice? E dove stai andando ora, hai già un nuovo lavoro in mente?

Questo è un romanzo "leggero", nel senso che mi sono presa la libertà di far capitare tutto quel che più mi piaceva, giocando. E' un catalogo, qualche recensore lo ha notato, di molti ambienti e situazioni tipici dei miei libri, però con una felicità interna, un'allegria che raramente mi è capitata. Sono molto contenta di averlo scritto, mi sono divertita. Insieme a questo libro stavo e sto scrivendo un romanzo più complesso e raccogliendo dei miei articoli che raccontano la città. In più ho una raccolta di racconti che cresce parallela da qualche anno e ho trascorso l'ultimo anno a scrivere per il teatro: monologhi per Gea Martire e Imma Villa, un testo su Emily Dickinson, L'angelo della casa, che va in scena dal 12 al 14 giugno al Napoli Teatro Festival, per la regia di Giorgia Palombi, con Giovanna Di Rauso, Giancarlo Cosentino e Susanna Poole, e altri progetti per teatro e cinema che si definiranno nei prossimi mesi.


Un altro interessante spunto tratto del romanzo è l'attenzione al contesto, ai luoghi nei quali la storia viene calata. Napoli, da sempre al centro del tuo interesse artistico, cosa continua a suggerirti, quali suggestioni in questo specifico momento storico?

Sono contenta che in questo romanzo sia venuta fuori una Napoli non ovvia, specie alcuni ambienti che di solito non fanno da sfondo alla narrazione della città e della sua oleografia del male: il Vomero, ad esempio, dove si svolge una parte della vicenda di Aida era stato usato solo da Attilio Veraldi, l'autore de La mazzetta e de Il vomerese, o i Campi Flegrei, la Napoli sotterranea, il Borgo Orefici... Una città fatta di piccolo borghesi che lavorano, come il padre di Aida, nelle congreghe del Cimitero di Poggioreale, di vecchissimi inquilini di condominio pressoché immortali, del complesso mondo extracomunitario che Napoli, come sempre, ingloba e assorbe senza grandi conflitti, come sempre accade nelle città di mare, anche se nuove forme di razzismo e revanchismo stanno prendendo piede persino qui... tanto che nel romanzo si parla di un partito leghista del Sud...


I personaggi del romanzo hanno un rapporto forte, a volte doloroso, col tema della solitudine. Aida è sostanzialmente una donna sola, fino all'incontro con Nunnaro. Lo è il padre. Si immagina lo sia stata la sorella. E apparentemente lo è la piccola Spigola, strappata al suo destino di orfana. In qualche misura, una solitudine che oggi riguarda tutti, e che probabilmente è uno dei mali dominanti di questo nostro tempo. Che rapporto hai come persona e come scrittrice con la solitudine? La temi o la consideri una risorsa, un momento per ristabilire il silenzio necessario all'ascolto?

La solitudine è una grande risorsa per chi scrive, l'importante è che sia una solitudine rumorosa: intorno a me si muove una famiglia, gatti, un compagno molto amato, amici, tutte le persone (tante) che seguono i miei laboratori di scrittura, le relazioni del mio mondo privato. A volte, quindi, è difficile restare soli abbastanza a lungo, altre volte la solitudine, ho imparato, è quella stanza tutta per sé (quella della Woolf) nella sua versione odierna e precaria. Riesco ad essere sola per scrivere anche sul treno, in autobus, mentre altri guardano la partita del Napoli...


Tra le pagine de La paura della lince vien fuori un'altra notevole annotazione. La responsabilità che assumono i rapporti famigliari all'interno delle vite degli individui. La famiglia, già al centro della celebre disanima di André Gide, torna a essere nucleo di conflitti, di sopraffazioni, talvolta persino di raggiri e violenze sottaciute. Quanto è possibile rifletterci attraverso gli strumenti che l'arte e la letteratura ci offrono?

Sì, la famiglia di Aida è in fondo una famiglia scoppiata, di solitudini che s'incontrano. Questo succede sempre più spesso intorno a noi e la letteratura se ne prende carico da sempre: sono oltre cento anni che quest'aspetto si accentua un pò di più ad ogni generazione e noi ci siamo completamente immersi. Chi sono le persone che abbiamo accanto? Le conosceremo mai? C'è da fidarsi? Cosa rischiamo nelle relazioni? Scriveva E. M. Forster che non conosceremo mai così bene nella realtà le persone che abbiamo intorno come invece conosciamo i personaggi dei nostri romanzi, di cui possiamo immaginare ogni singolo moto dell'animo. E' drammaticamente vero, per questo la letteratura si prende la briga di guardare nel cuore umano il più a fondo possibile. Non è un caso che i personaggi che abbiamo costruito meglio ci sorprendano rivelandoci aspetti di loro che solo in parte avevamo calcolato e di cui non possiamo non tenere conto nella stesura di un'opera.


Ogni libro rivela al suo autore qualcosa di nuovo, di insospettabile, di sé, del proprio rapporto con il mondo. Che cosa ti ha insegnato in special modo La paura della lince?

A divertirmi di più! Sarà l'età che avanza, ma mi diverto molto quando scrivo i racconti: mi è capitato con Itagliani!, che era ne L'amore quello vero, e ora con la Lince mi è successo di nuovo. Si alternano sempre in storie comiche e storie drammatiche. La paura della lince, nonostante il cupo mistero che affronta, è un libro allegro.


La qualità che da sempre caratterizza la tua cifra stilistica è il profondo rispetto della lingua - questa tua capacità inventiva, che elabora a ogni passaggio metafore e giochi e sorprese stupefacenti. In un'epoca di appiattimento linguistico ed editoriale la considero un'operazione coraggiosa, quasi sovversiva, e una forma di resistenza alla minaccia dell'incultura e dell'omologazione. Quanto è necessario, secondo te, che gli scrittori si impegnino in tale direzione?

E' fondamentale: io credo, ho fede nella scrittura come vocazione, quindi come faticoso e fervente lavoro quotidiano. Quando si lavora tutti i giorni alla propria lingua e alla forma delle proprie storie si tollera male ogni forma di sempli-ficazione, di appiattimento, di ovvietà. Riconosco intorno a me pochi scrittori che tengano davvero a questo obiettivo e cerco di frequentare solo questi, sia nella vita sia nelle letture. E' importante non perdere di vista l'arte, al di là delle pressioni omologanti di editoria e mass media. Dispiace scoprire che gli editori non sono al fianco degli autori in questa battaglia, preoccupati del danaro, da una crisi che hanno indotto appiattendo i loro lettori con decenni di offerta analfabetizzante. Le conseguenze le paghiamo tutti, adesso. Per questo bisogna continuare a scrivere con criterio, con attenzione a ciò che veramente si vuole dire e a come.


Ci sono modelli, riferimenti intellettuali che ti sono stati utili nel meditare questo romanzo? Quali sono gli amori letterari di Antonella Cilento?

I soliti: Hoffamann per i racconti, Banti per il racconto Tela e cenere, Ramondino (Althènopis e Dadapolis per Napoli), Stevenson, penso al Diamante del Rajà, Bulgakov, e poi i capisaldi del genere: Simenon, Christie... Gli amori poi sono molto più complessi di così e variegati: in questo periodo amo fra gli italiani Marosia Castaldi e il suo bellissimo La fame delle donne (Manni) e i libri meravigliosi di Gilberto Severini. Penso, fra gli autori italiani, a Giuseppe Montesano, a Maria Attanasio... Mancano tanti nomi, naturalmente, ma ti cito quelli più direttamente collegati all'idea del libro, ovviamente.


Come vedi il tuo futuro di artista e di scrittrice? Cosa ti piacerebbe realizzare adesso, dopo diversi romanzi, ma pure dopo saggi, manuali, articoli giornalistici?

Il grande romanzo cui sto lavorando e il teatro sono gli obiettivi del momento.


Hai pensato all'ipotesi di una riduzione cinematografica? Nel caso questo sogno si realizzasse, quali attori vedresti nei panni di Aida e in quelli della sorella e di Nunnaro?

Ah, tutti mi stanno parlando di una riduzione cinematografica! Chissà!... Sarei molto felice per Aida di vederci dentro un'attrice superlativa e poco usata dal cinema come Imma Villa. Amo molto anche Teresa Saponagelo, Gea Martire, Cristina Donadio, Margherita Di Rauso... Sarei molto felice di vederle tutte insieme in una mia storia!... Per Nunnaro invece non ho un'idea. Speriamo ci siano ragioni per farsela venire...


Trovo coraggiosa e civile anche la scelta di un'autrice affermata e conosciuta come te di affidare un romanzo a un piccolo editore. La trovo un'azione di grande generosità, e di sostegno a un'editoria indipendente sempre più in difficoltà. Cosa mi dici in proposito?

Da molti, troppi anni, il Sud e Napoli in particolare non ha editori di livello nazionale. Ho esordito con Avagliano e dispiace dire che l'avventura di quell'editore, che pure ancora esiste, non è più proseguita con l'intensità iniziale. Certo, ci sono Laterza e Sellerio e un indipendente di grande qualità come Rubbettino, ma avremmo proprio bisogno di un forte editore meridionale. Rosario Bianco, l'imprenditore e la mente di Rogiosi, si muove da alcuni anni con intelligenza, pubblicando la rivista L'Espresso napoletano e libri d'arte e mestieri sulla città molto curati nell'apparato fotografico e nei testi. Si è comportato in modo molto serio con me e il lancio di questa nuova collana, Omega, mi è sembrata una scelta coraggiosa da parte sua, rischiosa e dunque degna d'essere sostenuta. Spero che il libro abbia fortuna anche per lui, anche per il marchio Rogiosi, che questo sia l'inizio di una storia editoriale più ampia. Punto sempre sulla mia città, nonostante i suoi troppi difetti.


Da anni lavori sul campo, come si direbbe in gergo antropologico. Da anni ti confronti con le esigenze di una città - ma anche di un Meridione - estremamente bisognosi di sostegno. Quanto ritieni importante tale impegno diretto, frontale, vigile, da parte degli intellettuali del Sud?

Ho scelto di lavorare e restare qui, il mio laboratorio compie a novembre 2012 venti anni di attività non sostenuta da fondi pubblici: una sfida più che vinta, nonostante le difficoltà di Napoli. Costruire una rete è essenziale perché le cose vadano meglio, in questo la città è molto carente. Credo nell'impegno personale, lo pratico ogni giorno andando nelle scuole, nei laboratori, insegnando alle persone a leggere e a inventare. Non credo nelle tarantelle politiche, con quello si investe in potere personale e in visibilità: due espressioni del presente cui non credo. Ho fede che le persone siano capaci di crescere. Lavoro per il futuro.


Qualche anticipazione sulle tue prossime uscite editoriali?

Dovrebbe esserci un libro dove ho raccolto alcuni anni di articoli scritti su Napoli per Il Mattino con Laterza. E poi... vedremo.


Luigi La Rosa












per le foto utilizzate all'interno

dell'articolo si ringrazia l'autrice.

Le immagini dell'incendio,

del Castello Aragonese di Baia

e di Pompei sono invece

di proprietà dei seguenti siti:


Incendio: http://www.google.it/imgres?q=incendio&um=1&hl=it&sa=N&biw=1080&bih=554&tbm=isch&tbnid=eiiZfJB-0BeiPM:&imgrefurl=http://www.infooggi.it/articolo/anziana-uccisa-da-incendio-in-casa/22763/&docid=Kdc5Wly7EVZcYM&imgurl=http://www.infooggi.it/public/foto/articoli/0933a8da07656603ab18af4286a778894f01ea258587c.jpg&w=590&h=343&ei=T8iGT5SkCLPV4QT97pzIBw&zoom=1&iact=hc&vpx=750&vpy=97&dur=69&hovh=171&hovw=295&tx=149&ty=105&sig=105324827642197168773&page=2&tbnh=128&tbnw=220&start=9&ndsp=12&ved=1t:429,r:7,s:9,i:172


Castello Aragonese di Baia:

http://www.google.it/imgres?q=castello+di+baia+napoli&um=1&hl=it&biw=1080&bih=554&tbm=isch&tbnid=eq3rhK3Ou_CGFM:&imgrefurl=http://www.assostato.it/%3Fp%3D740&docid=0CvmqAxDhSe-5M&imgurl=http://www.assostato.it/wp-content/uploads/2009/08/Castello-di-Baia.jpg_2007427194812_Castello-di-Baia.jpg&w=945&h=711&ei=-MiGT-2_Hu3P4QS1rY2kBA&zoom=1&iact=hc&vpx=358&vpy=137&dur=2601&hovh=195&hovw=259&tx=181&ty=108&sig=105324827642197168773&page=1&tbnh=111&tbnw=148&start=0&ndsp=18&ved=1t:429,r:2,s:0,i:68


Pompei: http://www.google.it/imgres?start=20&num=10&um=1&hl=it&biw=1080&bih=554&tbm=isch&tbnid=jjwfjESNgNBU7M:&imgrefurl=http://www.arthotelgranparadiso.com/it/escursioni_guidate.php&docid=yVw2XrMxeiM3EM&imgurl=http://www.arthotelgranparadiso.com/_img_sez/831-2-grande-1-pompei-vesuvio.jpg&w=600&h=480&ei=7xuHT-igNKeg4gTyhoGmBw&zoom=1&iact=hc&vpx=363&vpy=156&dur=139&hovh=201&hovw=251&tx=143&ty=145&sig=105324827642197168773&page=3&tbnh=168&tbnw=219&ndsp=12&ved=1t:429,r:5,s:20,i:56



lunedì 5 dicembre 2011

Editoria: mestiere, vocazione e tante scelte coraggiose...














A colloquio con Sandro Ferri,
che nell'illuminante volume

"I ferri dell'editore"

raccoglie riflessioni, spunti,
considerazioni ed esperienze
personali
legati a oltre trent'anni d'attività
nel ca
mpo dell'editoria
italiana e internazionale.

Un modo per
capirne di più,
attra
verso la voce di uno
dei più autorevoli e interessanti editori

del nostr
o panorama letterario.

Basta leggere qualcuno dei coinvolgenti romanzi di Maupassant o di Dickens per farsi un'idea precisa di cosa dovesse rappresentare il mestiere dell'editore in epoche lontane come l'Ottocento o i primi decenni del secolo scorso. La letteratura ha conferito a questa particolare figura un alone leggendario, dorato, e l'antico artigiano designato dalle storiche vignette o riemerso dai traboccanti ritagli ingialliti dei feuilleton diviene ben presto una sorta di eroico timoniere, alla guida di una nave percossa dalle tempeste culturali, con gli occhi rossi dalla fatica e la mente abbagliata dalle soluzioni tipografiche. L'editore è anzitutto un talent scout, uno scopritore, un intellettuale dalla vista sorprendente, abituato a scrutare nel mare magnum delle possibilità per adocchiare il talento, vederlo brillare come uno scintillio di specchi o riconoscerlo nella creta disposta a farsi modellare da abili mani. Se ripensiamo a figure come lo stesso Balzac (lo scrittore fu a capo di una rinomata stamperia parigina, e più volte tentato da accattivanti progetti editoriali), o ai coniugi Woolf (l'arguto Leonard e la geniale Virginia, sostenitori di scrittori del calibro della Mansfield o di Forster) ci rendiamo subito conto di quale grado di intelligenza, passione, vocazione e spirito di sacrificio un mestiere come questo abbia sempre richiesto in chi lo pratichi, suggerendo una preziosa visione personale nell'ambito del costume e della sensibilità sociale collettiva. In giorni non troppo lontani dai nostri l'editore è stato un maître-à-penser, un arbitro della bellezza, il testimone raffinato e colto del pensiero, dell'estetica dei tempi.

Con gli an
ni, la realtà è cambiata, e mercato e pubblico si sono trasformati sotto i dettami di un capitalismo sempre più imperante e aggressivo. Ci chiediamo allora cosa sia diventata oggi la figura dell'editore - quale prestigio ancora detenga, quali responsabilità le vengano naturalmente attribuite. Scegliere e investire nell'oceano imperscrutabile delle possibilità contemporanee dev'essere qualcosa di oggettivamente difficile e rischioso, che richiede abilità, perspicacia, ma più d'ogni altra cosa lungimiranza e coraggio. L'editore deve comprendere, deve vedere oltre, rischiare in prima persona. Deve pertanto possedere l'intuito della preveggenza, per capire laddove si annidino potenzialità e valori. Devono insomma appartenergli originalità di visione, capacità d'analisi, e una sana, irrazionale dose d'intraprendenza. Qualità che negli anni hanno sostenuto e caratterizzato fortemente le scelte di Sandro Ferri e Sandra Ozzola, alla direzione delle edizioni E/O.

La casa editrice romana - giunta quest'anno al suo trentatreesimo anno di vita, e con all'attivo successi internazionali come L'eleganza del riccio di Barbery Muriel, Una bambina e basta di Lia Levi, Amabili resti di Alice Sebold e Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado, solo per citarne alcuni - si è caratterizzata fin dal principio per l'assoluta novità delle proposte, e la forza, la freschezza, l'originalità delle offerte editoriali. Meritoria e notevole l'idea di aprirsi al mercato degli scrittori dell'Europa dell'Est e in seguito di numerosi altri paesi e culture del mondo: è infatti proprio su questo fronte di dialogo interculturale che la casa editrice ha scovato delle autentiche meraviglie letterarie. Si pensi alle opere del congolese Jadelin Mabiala Gangbo, o della scrittrice tedesca Christa Wolf. O a quelle del libanese Sélim Nassib. E ancora all'ambito del noir mediterraneo, valorizzato da due presenze ormai storiche nei cataloghi di E/O, ovvero quelle degli scrittori Jean-Claude Izzo e Massimo Carlotto. In ultimo, l'intuizione geniale di approdare al vasto mercato americano, con la creazione nel 2005 di Europa editions, trampolino di lancio negli Stati Uniti per molti dei nostri autori italiani.

Tutto questo è frutto dell'impegno, ma anche di una precisa poetica intellettuale. Una poetica dell'impegno, ecco come mi piacerebbe definirla. Ne discuto con Sandro Ferri, prendendo spunto dall'uscita de "I ferri dell'editore" - il breve manuale che l'editore ha scritto mettendo a frutto la sua testimonianza e la sua esperienza sul campo. Oltre un trentennio d'attività, di scouting, di ricerca della qualità. E soprattutto, tre decenni di attenta riflessione, di studio, di soddisfazioni. Sandro Ferri risponde alle mie domande con grandissima cortesia, e con quella nota di consapevolezza, quella luce nello sguardo, che è di chi conosce ormai bene i meccanismi interni dell'universo editoriale, e ha deciso di raccontarli con onestà, laicità e schiettezza.

Un manuale, che è anche una testimonianza, una sorta di dialogo aperto con il pubblico dei lettori. Dove nasce l'esigenza di questo libro?
Nasce dalla constatazione che semp
re più spesso negli ultimi tempi mi è accaduto di trovarmi in mezzo a persone - perlopiù non addetti ai lavori - che non avevano ben chiari la figura e il ruolo dell'editore. Mi è successo maggiormente con le nuove generazioni, con i giovani. Ho sentito in più d'un caso i loro dubbi, le loro perplessità. Allora, prestando le riflessioni della mia esperienza diretta in ambito editoriale, ho pensato di spiegare il mio punto di vista in proposito: pertanto il ruolo, l'importanza, le difficoltà dell'essere editore in un'epoca complicata e contraddittoria come la nostra.

I nuovi territori di internet, delle pubblicazioni on-line. Che cosa ha comportato la diffusione del virtuale sul piano strettamente culturale ed editoriale?
Una grande trasformazione, sicuramente. Vi sono cen
tinaia, migliaia di dimensioni editoriali alle quali uno scrittore esordiente oggi si può rivolgere. Tuttavia, io credo che i limiti di questa mutazione siano abbastanza evidenti: accedendo con maggior facilità ai sistemi di pubblicazione viene ovviamente a mancare quel ruolo di "filtro" che gli editori hanno invece sempre garantito in termini personali. Questo ruolo, per così dire, passa direttamente attraverso il pubblico, il grande pubblico degli internauti, ma sappiamo bene che non sempre il pubblico è in grado di scegliere al meglio. Non sempre il successo premia scelte qualitative, o di livello. Mi piace ribadire quel che sosteneva Calasso: l'editore dà forma a una proposta. Io condivido pienamente questa posizione, perché credo sia proprio questo il nostro ruolo e il nostro lavoro. Dare forma a proposte, dare forma a proposte di pensiero e di arte. Perciò comprendo pure il normale spaesamento dei lettori davanti a tanto cambiamento.

Tale metamorfosi non comporta anche il pericolo di smarrire quelle vecchie, sagge attenzioni che gli editori di un tempo dedicavano alla cura, al confezionamento, alla distribuzione fisica dei libri?
Chiaramente è così. Il rischio è grande. L'impegno che gli editori mettiamo nella proposta di un testo è anche un impegno di natura artigianale, di cura concreta del prodotto. Giulio Einaudi guardava a com'erano allestiti i libri, li analizzava materialmente, li seguiva fin nei minimi dettagli. Dovrebbe essere un esempio per tutti coloro che fanno questo mestiere. Oggi, d'altra parte, siamo purtroppo sempre più obbligati a gestire un numero di mansioni enorme, per cui si rischia di smarrire quella stupenda concentrazione, quel pregio innegabile, che io ritengo ancora fondamentali, e importanti nel diffondere un bel libro in mezzo alla gente.

Lei trascorre parecchio del suo tempo all'estero. Qual è l'immagine del nostro paese in ambito internazionale? Che mercato hanno i libri italiani fuori?
Io posso parlarle soprattutto della realtà americana, che è quella che conosco meglio. In genere devo dire che purtroppo non si traduce moltissimo dall'Italia. E' vero che la crisi riguarda in generale un pò tutti i mercati del pianeta: in linea di massima, pure le vendite di molti degli scrittori esteri negli ultimi anni si sono notevolmente abbassate. Negli Stati Uniti solo qualcosa pari al 3% dei libri editi in lingue diverse dall'inglese viene solitamente tradotto e venduto. E' una situazione difficile, che dovrebbe chiamarci tutti in causa.

E' in tal senso che la casa editrice E/O ha pensato di fondare "Europa Editions"?
Sì, l'idea sostanziale era quella di colmare un vuoto, dando voce laddove c'era silenzio. Abbiamo cercato di fare da apripista, lavorando attraverso il rapporto con le librerie indipendenti e facendo in modo che i nostri migliori autori trovassero pian piano uno spazio altrove. Si è partiti con alcuni dei nostri nomi di maggior riferimento, per rivolgerci man mano ad altri. Abbiamo tradotto Elena Ferrante, Massimo Carlotto, Lia Levi, Stefano Benni, Alessandro Piperno, Diego De Silva. Nuovi scrittori sono pronti per essere tradotti e diffusi. Alcuni degli autori proposti hanno perfino toccato le 10, 20.000 copie di fatturato. In 6 anni di impegno abbiamo ottenuto dei risultati ottimi, e attualmente siamo l'editore che pubblica più libri tradotti all'estero.

Quello che colpisce di più ne "I ferri dell'editore" è il suo grado di leggibilità. E' un testo che si legge con piacere, perché ci accompagna nella dimensione interna e tecnica dell'essere editore senza trascurare neppure per un istante il piacere della scoperta, dell'intuizione legate all'indagine artistica. Lei parla di incontro con i libri, ma soprattutto con delle potenziali promesse di talento, dietro le quali l'editore deve essere in grado di scorgere voci, stili, forme di bellezza. Quanto l'ha sorretta nel suo lavoro questa passione deduttiva?
Per me rimane fondamentale. Ricordo ancora con emozione certe letture - certe prime letture -, dietro alle quali ho avuto modo di intuire dei grandi libri e dei grandi futuri scrittori. La cosa più bella resta questa gioia dell'incontro: incrociare una scrittura nuova, incontrare un'arte che ti regali uno sguardo innovativo sul mondo. In molti casi si lavora poi insieme all'autore, per perfezionare ciò che è già dentro il libro, consentendogli di raggiungere maggiore chiarezza, una più profonda coerenza. E' questo ad alimentare la passione che ci sostiene: il fatto che l'editore compie comunque una scelta di natura "soggettiva", che scommette mettendo in gioco la sua sensibilità, il suo gusto, le concezioni estetiche di cui è in possesso.

Lei ha chiaramente conosciuto, incontrato, valorizzato moltissimi scrittori di tutto il mondo. Ci sono ricordi ai quali è particolarmente legato?
Di ricordi ne ho tanti, perché hanno accompagnato e accompagnano ancora la mia vita. La recente scomparsa di Christa Wolf ha fatto ad esempio riemergere tutto un brulicante orizzonte di storie e aneddoti legati agli scrittori dell'Est. Aver visto e conosciuto un ambito così diverso e ormai così lontano rimane per me un fatto di orgoglio e grande emozione. Era un universo difficile, rarefatto, in parte come congelato a prima dell'Impero austro-ungarico. Tali erano le atmosfere, gli incanti che ne affioravano. Due sono a tal proposito gli scrittori che mi commuove sempre ricordare: Kazimierz Brandys, autore di un bellissimo romanzo intitolato "Rondò", e Bohumil Hrabal, narratori, artisti che hanno evocato le sfumature magiche di una Praga che non c'è più.

Possiamo concludere con due parole su "Rondò", questo romanzo a lei così caro?
Si tratta di un romanzo a mio avviso straordinario, appassionante e tenero. E' la vicenda di un giovane, che nella Varsavia occupata dai nazisti, per amore di un'attrice s'inventa di far parte di una rete di Resistenza. Gli eventi si succedono a un ritmo incredibile, e nonostante la serietà dello sfondo storico, il tono ha qualcosa di fortemente vitale e giocoso, in grado di sovvertire completamente il quotidiano. Ebbene, sono questi i libri che ti fanno chiedere dove stia il confine esatto tra verità e finzione. Se un simile confine ci sia poi per davvero. Forse, per questo li ami, e li custodisci nella memoria, per questa loro carica dirompente, sagacemente trasgressiva. E mi piace moltissimo pensare a quelle scelte individuali che hanno dentro un'energia di rottura talmente forte, da ribaltare in maniera definitiva la realtà in cui crediamo di vivere.

Luigi La Rosa



si ringrazia Gabriella Fago e la casa editrice
per la gentile concessione delle fotografie
che ritraggono, in ordine di apparizione:
1 - Sandro Ferri e Sandra Ozzola,
2- Sandro Ferri, Sandra Ozzola e Eva Ferri;
3 - Sandra Ozzola e Massimo Carlotto


l'immagine dello stampatore utilizzata all'interno
del pezzo è inoltre di proprietà del sito:


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