venerdì 25 giugno 2010

Piera Mattei e la poesia degli attimi...

Non dirò chi
ne è il destinatario
nessun altro dovrà raccoglierle
sono state scelte
una a una, una tela
che il prato aveva disteso
per la sua festa.
(Le parole)
una passione inellettuale sorretta da una coscienza lucida, laica e fortemente critica in nome della libertà di pensiero

Il ricordo e l’affetto di certi amici è spesso legato alle abitudini, agli incontri, alle occasioni attraverso cui li viviamo, e scopriamo che sono divenuti insostituibili per le nostre vite. Ogni volta che penso a Piera Mattei – alla sua dolcezza, alla straordinaria limpidezza intellettuale del suo pensiero – certi luoghi si ridisegnano immancabilmente davanti agli occhi, e con essi, certe sensazioni, certe emozioni, certi ricordi.
Roma, anzitutto. La stuporosa meraviglia di questa città. E via Giulia, con la teoria dei suoi antichi palazzoni di pietra, sui cornicioni dei quali vecchi angeli cinquecenteschi continuano a vorticare in una chimerica danza di luce e di splendore. E Campo dei Fiori, ma non quella turistica e ultra affollata delle orge notturne dei sabati e delle domeniche di festa, ma la piazza dei silenzi e delle solitudini meridiane, dove canta l’acqua e il raschiare dei gabbiani è un diapason di elegante cristallo, oltre il quale la città pare sul punto di svegliarsi, sulla cantilena di antiche nenie popolari.
I luoghi della nostra amicizia ruotano intorno a questa parte magica e profodamente suggestiva della capitale, e si legano alle passeggiate che nel corso degli anni hanno costellato gli appuntamenti, gli incontri, le vitali chiacchierate sulla letteratura, sull’arte, sulla volgarità dei tempi che tutto offusca. Discorsi lunghi quanto le notti, appassionati, e vari quanto varia e complessa è la produzione stessa di Piera Mattei, espressa attraverso paradigmi e linguaggi differenti, che vanno specificamente dalla poesia alla prosa, dalla saggistica al giornalismo, alla traduzione, al teatro, e ancora alla fotografia e alla rappresentazione pittorica.
Tutto sembra confluire in un tratto espressivo unico, lucido, originale, che sceglie di volta in volta le occasioni migliori - le più naturali - per esprimersi, per divenire sigillo d’arte. C’è sempre un’ispirazione, un dettato psichico impulsivo dietro queste manifestazioni della parola. E quasi mai un progetto unico, lento, studiato e protratto nel tempo.
Mi piace aprire la mia riflessione con una delle più belle poesie della sua ultima raccolta (Oleandri, in L’equazione e la nuvola, Manni 2009), dove gli spazi della mente si tramutano velocemente in ascolto, e la parola sembra prenderci per mano, portarci con sé, condurci in un altrove che solo il poeta può percepire nella sua ideale portata. La poesia è questo: un'intuizione profonda, una luce che sale dalla voragine e che si spande, parlandoci di mondi lontani.
non dalla finestra nell’aperto / vedo oleandri // sono solo immagini della mente / oleandri ad albero // offrono la loro ombra rosata / a un gatto striato // e vedo – giacché la mente può questo - / vedo del gatto i pensieri // li leggo quasi fossero stampati / nell’impercettibile / movimento delle orecchie // si prepara a occupare / più comodi spazi dentro la casa / e ancora di più nella mia mente”.

Piera Mattei si esprime per “immagini della mente”, e la penna intinta nella densa materia pulsante della realtà si colora tutto d’un tratto di sfumature nuove, accensioni della durata d'infiniti istanti. Sono solo questi attimi, questi barlumi luminosi e perfetti a raccontare l’immane complessità dell’essere, atomi di incanto o di sgomento che si aprono e chiudono tra le righe lasciandoci percepire l’impossibilità di una trama narrativa unica, compatta, forzata dalla volontà uniformante del creatore.
La durata della visione è puramente percettiva, ed è quello che rimane di questa improvvisa luce dopo l’accecante risalita, laddove le linee del pensiero sfumano già in memorie, in allucinazioni, in voci lontane, che la pagina ha il potere di fissare. Come quelle delle fanciulle rappresentate in Gli alberi di Rodin, lirica di una bellezza indescrivibile, che testimonia la profonda aderenza della parola alle immagini interiori cristallizzate.

Il canto dei volatili animali / rende sicure le fanciulle / che siano veri alberi quei giganti / disciplinati che graziosi fremono / insieme dal basso verso l’alto / e filtrano luce / brillata dal temporale notturno. / Troppo belli perché godendo già di se stesse / non li ignorino le fanciulle. / Così la notte chiudendo i cancelli / si lasciano andare, scompongono / i rami, ripensano / le fanciulle che per compito abbozzano / sui taccuini i nudi corpi virili. / Sussurrano: / “Oh, noi, gli alberi, / siamo le statue più belle!”, / a vicenda si adulano.

Immagini estremamente vivide sono anche quelle che costellano gli intelligentissimi racconti di Melanconia animale (Manni, 2008), nei quali l’idea dell’attraversamento detta un vero e proprio principio di poetica, e le possibilità del caso – e delle incredibili geometrie che esso determina nella vita accidentale degli individui – guadagnano una centralità creativa nelle esperienze narrate dall’autrice, permeandole di lucide percezioni che diventano l’essenza stessa della contemplazione. Oltre questa contemplazione si aprono i territori freddi della morte, che pure gli animali avvertono, contagiati dalla millenaria frequentazione degli umani. Ci tocca, ci sconvolge, ci addolora pertanto la quieta malinconia delle bestie, semplice e muta, dotata di distaccato decoro, bella, sottile nei suoi intenti, mai sguaiata nei modi e nelle cifre.
Se ripenso ai luoghi – i luoghi della città, i luoghi dell’anima – non posso non ritornare alle pagine di uno dei testi più deliziosi della Mattei: I poeti e la città (Il bisonte 2009), serie di brevi saggi dedicati ai grandi poeti del passato, in rapporto alla città eterna che ha fatto da cornice, da nutrimento, da sfondo alla creazione delle loro opere. Bachmann, Palazzeschi, Rilke, Tasso, Keats, Alfieri e Metastasio: sono solo alcuni degli artisti intorno ai quali la penna colta e puntuale dell’autrice si è soffermata, con un piglio fortemente narrativo, e quel rispetto per i dati biografici e la verità storica dei testi che da sempre caratterizza per qualità e finezza ogni suo scritto.
Fascinazioni che tornano in alcuni dei suoi precedenti lavori, come la raccolta di racconti Nord (Manni 2004), e ancora i versi de La materia invisibile (Manni 2005). C’è una vita nascosta, misteriosa, pullulante, che le parole hanno il potere di riportare alla superficie della coscienza.

Le parole come gli amanti / si trattengono nell’ombra / finché le snida la passione / in piena luce rotolano / come lacrime / trasparenti.” (Le parole).

Le labbra del poeta possiedono il potere nascosto di ricondurre alla bianca accecante nudità della pagina lo splendore intrinseco delle parole. Ma la vita è fin troppo breve, anfibia, e dura giusto il tempo di una fuga dal silenzio: “Chi osserva non visto / il movimento delle mie labbra? / quelle parole non vogliono / attori che le atteggino / stirandone i nervi. / Hanno la vita di girini / neonati in una pozza / si stanno destando / ai primi tepori / d’un maggio tardivo.” (Le parole).

Ecco cosa sembra essere la poesia - questa poesia: un frullare di vita nel poco calore di una primavera tardiva. Il poeta conserva il suo segreto e lo custodisce a prezzo dell'esistenza stessa, perché le parole hanno corpi fragilissimi, che temono la violenza degli attori e la curiosità del mondo. Corpi che vibrano, che sussultano, e trasmettono un brivido leggero prima di spegnersi, nulla pure essi nel vasto nulla eterno che hanno intorno.
Quando penso alla produzione di Piera Mattei, prima ancora dell'ammirazione per la sua poliedricità e la vasta cultura che permea ogni suo lavoro letterario, un sentimento fondamentale è quello che mi colpisce: il grande rispetto per la verità, e l’impegno laico incrollabile nel suo ricercarla, laddove essa si annidi, sotto qualunque strato di menzogne, al di là delle facili mode di stagione, dei luoghi comuni più beceri del momento, in una volontà precisa, eterogenea, sicura, che si forgia sulla tradizione critica della scienza e sul gusto del bello, binomio che malamente si coniuga con la volgarità imperante del nostro tempo.
In qualche misura Piera Mattei preferisce rimanerne fuori. Preferisce essere altro. La ammiro molto per questa sua scelta radicale e salvifica. Preferisce coltivare la propria vocazione alla bellezza senza lasciarsi intimorire dai facili proclami del mondo editoriale, prestando impegno a un giuramento solido verso se stessa e verso la propria onestà intellettuale.
Le nostre passeggiate raggiungono i luoghi, li sfiorano, li rasentano, ma poi sentono il bisogno di evadere altrove, come fumo, o pioggia, tramutandosi in immagini che mi piace serbare a lungo dentro di me, dopo averla salutata sulla porta di casa. Ogni volta è un rituale che si ripete, che rimanda alla prossima occasione d'affetto. Alcune di queste immagini sono vive, le sento palpitare come i girini della poesia, sotto ali di vento. Molte sono divenute la sostanza risonante della sua letteratura.

Partiamo dall'essenza più intima della tua arte. La tua è una scrittura fatta di situazioni, di spunti momentanei, di accensioni, in un certo senso priva di un filo sistematico. Tutto questo nasce da una precisa volontà di poetica?
Caro Luigi, come sai, pubblico raccolte di racconti brevi, di poesie, di articoli e saggi critici, mescolo spesso i vari generi tra loro. Ho parlato più volte con te di questa mia convinzione: c'è bisogno di molto studio e disciplina per arrivare alla nota giusta, al gesto essenziale. E rispondo con una domanda alla tua domanda: cosa intendi per volontà poetica? Un progetto esterno, volontaristico, a priori? No, non c'è per me, e non può esserci. Penso che la scrittura sia la voce stessa del suo autore. L'esperienza, lo studio, la cultura ne sono un presupposto essenziale, ma per chi legge devono risultare assolutamente inavvertibili, altrimenti si comunica solo il ridicolo. La mia scrittura è sempre molto attenta a evitare sottolineature, aggettivazioni eccessive. Cerco di mantenere superlativi e enfasi a livello zero. La meraviglia per quanto ho visto o sentito e voglio comunicare deve scaturire dalla pagina. E' sempre lo stesso discorso, non deve apparire la preparazione, lo sforzo, come diceva Borges deve sembrare che la pagina si sia scritta da sé. La discrezione come regola della scrittura. Come altre volte ti ho detto: se dovessi scegliere tra il fatto di pubblicare un libro che sia inserito nelle classifiche dei più venduti, o rimanere a lungo nella mente di un solo, per un'immagine o una frase assolutamente legata alla mia voce, di gran lunga preferirei la seconda alternativa. Credo però che chiunque abbia la pazienza di leggere i libri che ho scritto riesca a riconoscere la mia voce, a trovare quella profonda coerenza senza la quale non c'è scrittura. Questa coerenza non è progettuale. E' il dono della scrittura, che implica disposizione, "lungo studio e grande amore". Ora, non proprio contro corrente, ma contro la moda o la passione del romanzo lungo, oltre alle mie argomentazioni, vorrei citare quelle di scrittori noti come Sebastiano Vassalli, già autore di romanzi ad ambientazione storica che afferma nell'introduzione al suo ultimo libro di racconti che quella misura gli sembra oggi, più del romanzo, adatta a dire il presente. Anche Giulio Ferroni trova che la misura del racconto riesca a "toccare più da vicino il senso della globalizzazione puntiforme in cui siamo catturati", che la forma "breve del racconto, guardato spesso con sospetto dagli editori, sia oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell'esperienza" che "proprio nel proiettare a diversi livelli questi frantumi… il racconto si fa carico della residua possibilità dello stile e della ricerca linguistica". Ferroni cita poi i nomi storici di Calvino e Manganelli, ma aggiunge quindi Celati, Tabucchi, Pier Vittorio Tondelli, Ermanno Cavazzoni, Antonio Debenedetti e molti altri contemporanei. (Giulio Ferroni – Scritture a perdere - la letteratura negli anni zero, Laterza editori). Quanto alla mancanza di un filo sistematico, mi riconosco piuttosto, come già ti dicevo, la disponibilità alla contaminazione, viva oggi in numerosi autori.

La scrittura narrativa, quella saggistica, la poetica, e ancora la pittura, la fotografia, la recitazione. Quale di queste diverse anime prevale sulle altre, o comunque rappresenta maggiormente la tua vocazione artistica?
Potrei dirti anche che canto come un usignolo, ma solo quando sono per conto mio? Allora? questo non conta, non contano le attività en amateur, anche se dovessi raggiungere lì un livello alto. E poi ho recitato solo quando si trattava di una regia in scena, di mettere in scena un montaggio di testi con allieve-attrici di lingua francese, che intendevo così trascinare verso una passione per la letteratura italiana. Quanto alla fotografia, sono veramente una dilettante. Devo sottolineare qui che ritengo la consapevolezza essenziale a ogni forma di arte, alla scrittura in particolare, per questo, credo, si sono sempre destinate al fallimento le prove di scrittura automatica. Se trovo una bellissima pagina di un diario dimenticato, non può trattarsi di un'opera, lì non c'è un autore, c'è solo di un fortunoso o fortunato ritrovamento. Victor Hugo amava dipingere a inchiostro, ma resta uno scrittore che dipingeva. Amo le mie pitture ad acqua su carta di riso ma, vedi, non mi sono, fino a qui, mai proposta in una mostra e non so se lo farò mai. La mia identità è nella scrittura. Quale genere di scrittura? Questo è secondario, credo. Del resto i generi possono mescolarsi tra loro e di fatto lo fanno, non da adesso. Per esempio, con termine di nuovo conio, parliamo di autofiction, cioè della scelta di non attenersi strettamente all'autobiografia o al frammento autobiografico, ma neppure a un racconto del tutto fittizio, come spesso ho fatto nella mia ultima raccolta Melanconia animale. Nonostante il nome nuovo, dobbiamo constatare che il genere ha radici antiche, e ha un esemplare eccellente nella Recherche proustiana, dove il narratore Marcel corrisponde solo in parte all'autore, intrecciando dati della sua esperienza con l'invenzione. Quanto poi alla commistione di spunti critici, diario, e brani creativi c'è stato un libro straordinario nell'Ottocento che continuamente li intrecciava e si chiama Zibaldone. Ma venendo alla cronaca, quanto alla commistione di critica e narrazione, ho letto di recente un'intervista a Emanuele Trevi e Armando Colasanti. Il primo afferma: "Il dualismo critico/scrittore non ha senso, praticare la specializzazione impoverisce". Ancora più drastico Colasanti: "Solo la stupidità divide prosa da poesia, critica, cinema, teatro: lo spirito usa tutti gli idiomi… La nostra grande tradizione è fondata sul superamento dei generi… Ma oggi si legge proprio il genere." Condivido se non il tono piuttosto aggressivo, certo il contenuto di queste dichiarazioni (Leggere: tutti, maggio 2010).

Ritieni che questa scelta di eclettismo appartenga anche a un determinato modo di concepire la propria persona e il proprio universo esistenziale?
Nella mia vita non c'è alcuna scelta di eclettismo. Da sempre, ancora da prima che cominciassi a pubblicare, ho sentito il mio destino nella scrittura, anche se, ancora oggi, mi lascio tentare da varie forme di espressione. Come dicevano i greci? Kalagatòs. Quanto è bello è etico. Quando ho dovuto scegliere i miei studi ho preferito la filosofia agli studi letterari. Avevo la presunzione di saperne già abbastanza di letteratura. La riflessione sul nostro posto nel mondo, accanto agli altri viventi, è molto presente nei miei libri. Sento molto fortemente i rapporti tra arte, etica, scienza, religioni. Devo dire tuttavia che un discorso esplicito circa l'impegno non riesco a inserirlo nei miei racconti e nelle mie poesie, l'enfasi e lo scrupolo di contestualizzare mi trascinerebbero. Mi ritaglio per questo altri spazi, come la rivista on line Lucreziana 2008.

Il tema del viaggio rappresenta una costante della tua produzione letteraria. Viaggi fisici ma pure viaggi spirituali, interiori, spostamenti intorno ai concetti di luogo e tempo. Che rapporto ha Piera Mattei con questa dimensione? Cosa significa andare incontro all'altrove?
Ho parlato molte volte del tema del viaggio, anche nelle note che spesso accompagnano i miei libri. Perciò, per non ripetermi preferirei qui farmi prestare la voce da Ernestina Pellegrini, professore di Letteratura contemporanea all'Università di Firenze, che alla presentazione del mio ultimo libro di poesie presso l'Archivio di Stato di quella città ha detto tra l'altro: "I luoghi sono anche al centro di L’equazione e la nuvola, una raccolta di poesie che è, a mio giudizio, il libro più importante, più interessante della scrittrice. I luoghi, lo spazio, la natura, i suoi abitatori notturni e diurni, i cieli attraversati da nuvole, abitati da dei pagani come da angeli: Erice, la città di Venere Ericina, Naflio (nell’Argolide), Agadir, in Marocco; Duino, Milano, Nervi, e poi Parigi, Chicago, Miami. Architetture che variano, faune e flore molteplici, che sono veri, concreti, palpabili, ricostruiti in delicatissime mappe immaginarie, in un impressionismo senza sbavature (c’è – come dire - una geometria delle impressioni; un nitore di marca quasi orientale; quasi da haiku passato dentro l’arte di Monet). Del resto si sa dell’interesse profondo di Piera Mattei per l’arte e la letteratura giapponese, così come il suo amore per la letteratura e l’arte francese. Sono paesaggi descritti con la precisione minuta del dettaglio, colti nella dimensione raccolta ed effimera della quotidianità; eppure questi luoghi hanno sempre una qualità e una luce metafisica, risultano elegantemente impalpabili, delicatissimi, e sono mossi da un’attrazione siderale per ciò che è al di là. La nuvola e l’equazione, appunto, la natura e la scienza. Comunque c’è sempre un punto di fuga nella poesia verso l’oltre. Tutto è comunque presentificato. Non c’è memoria: c’è l’attimo e c’è l’eterno nei paesaggi di Piera Mattei".

E' una dimensione che appartiene anche alla tua esperienza di vita? Ci racconti qualcosa dei tuoi personali luoghi dell'anima o di quelle città dove hai vissuto e di cui poi hai scritto?
Vorrei che quanto scrivo parlasse per me. Non sono molto portata a narrarmi, anche se la più viva attenzione di chi ti ascolta, lo so, si accende al racconto delle vicende personali. Dalle città e dai libri raccoglie racconti di viaggio e critiche alle letterature che i luoghi dove ho viaggiato esprimevano. Più recentemente I poeti e la città descrive invece i segni che i poeti hanno concretamente lasciato, nelle strade, nei palazzi, negli spazi urbani dove hanno vissuto. Ma anche nei libri di racconti, soprattutto in Nord e in Melanconia animale chi scrive o parla è spesso in viaggio.

Qual è il tuo rapporto con la realtà? La scrittura ha il potere di ricrearla, o preferisci semplicemente fotografarla, metterla a nudo secondo la tua percezione?
La scrittura inventa la realtà, sempre. Nel senso etimologico. Trova quello che altri non sa trovare o non vede, e lo addita. Anche Flaubert, certo non faceva sentire "molto" il suo giudizio su Madame Bovary, anzi s'identificava, ma non nell'accezione patetica di tanta letteratura di oggi. Infine la fotografia stessa non è che un modo di vedere quanto ti è presente. Scegli un'angolazione, una luce, poi anche lo strumento fa la sua parte. Una foto non è mai una copia della realtà. Tentativi di riprodurre esattamente la realtà come alcuni decenni fa l'école du regard, producono un effetto opposto perché la scrittura ha tempi diversi dalla fotografia e, quanto più è dietro a riprodurre i movimenti dell'occhio, tanto più perde terreno, si dilunga tradendo la simultaneità. Comunque riprodurre la realtà è sempre stato lontanissimo dal mio modo di sentire. Io vedo sempre aldilà, immagino storie, delle quali solo alcune ne scrivo. A tutte le ore del giorno varie storie suscitano la mia sorpresa. Non come certi scrittori che cercano intenzionalmente le avventure come materia per la loro scrittura. Quelli li trovo un poco perversi e pericolosi.

Ci sono autori ai quali rimani maggiormente legata e che sono stati insostituibili nella tua formazione intellettuale?
Alcuni nomi li ho fatti già fatti: Barthes, Borges, Flaubert. Eppure tutti questi sono venuti in un secondo tempo. Da bambina leggevo libri d'avventura e poi i grandi russi, ma più di Tolstoj o di Cechov, di cui ora adoro la scrittura, amavo allora Dostoevkij e non escludo che sia cominciata da lì una mia tendenza alla riflessione sul ruolo della religione nell'etica. Poi, con gli studi di filosofia si è consolidata l'ammirazione per la scrittura aforistica di Nietzsche. Umano troppo umano è ancora tra le mie letture preferite. Mi rendo conto di avere fin qui trascurato le donne. Allora cominciamo con la "divina dolce ridente Saffo", letta al liceo nella versione di Quasimodo, ma ancora prima tradotta, sia per compito che per passione, dal testo originale, con meraviglia ed emozione per la grazia libera e perfetta di quei frammenti. E poi ho continuato così, privilegiando nelle donne la poesia. Quindi Dickinson, direi meglio conosciuta che più amata della Woolf. Infine devo dirti che oggi, dopo molti anni come coredattrice di una importante rivista di poesia, mi trovo a leggere molta bella poesia scritta da donne. Anche se poi – questo è un discorso grave – poche donne figurano nelle antologie.

Il tuo massimo amore rimane Dante Alighieri. Come nasce questa passione e quanto ha influenzato nel tempo le tue scelte, i tuoi percorsi creativi? Cosa diresti ai giovani che non lo conoscono o che spesso mistificano o sottovalutano la sua figura?
Non solo il mio massimo amore, ma un autore riconosciuto come massimo dalla letteratura mondiale. Proprio oggi leggevo una rivista di poesia argentina contemporanea dove Dante era citato a più riprese, con il massimo rispetto e una totale passione. Certo, Dante. La Vita nuova, per esempio e il Convivio. Esemplarmente la letteratura italiana comincia così, con testi dove prosa e poesia, autobiografia e finzione s'intrecciano con estrema naturalezza. Quale esempio più alto si può trovare, di commistione tra racconto autobiografico, storico, di verità e al tempo stesso d'invenzione assoluta della Commedia? Dante ci conduce con lui nei regni dell'aldilà, ed è tutto verissimo solo nella sua altissima immaginazione. Eliot, Borges lo hanno studiato appassionatamente e miracolosamente si sono innamorati del testo originale ancora prima di conoscere bene la lingua italiana. Qualcosa di simile, di quasi magico è avvenuto a me. Dicevo che non amo parlare di episodi della mia vita ma questo voglio raccontarlo. Avevo appena finito la quinta elementare e mi trovavo come parcheggiata in una scuola-collegio di studentesse più grandi. Nella mia solitudine mi soccorse, sotto un banco a portata della mia curiosità, una copia del Paradiso e cominciai a leggerla e ne imparai a memoria una buona parte del primo canto. Capivo tutto. E si trattava del Paradiso. Ancora oggi sono in grado di ripetere a memoria quelle terzine e alcuni altri episodi che studiai successivamente. Per questo mi meraviglio quando sento dire che la Divina Commedia è difficile da capire! Occorre saperla leggere. Del resto in anni recenti Robero Benigni è riuscito a riempire le piazze con la sua recita di Dante.

Non credi chi l'Italia sia un paese sostanzialmente abitato da poeti? Il romanzo qui non ha una tradizione paragonabile a quella di altre dimensioni estere. Da cosa può dipendere questo secondo te?
Dicevo appunto che basta conoscere la letteratura italiana per rendersi conto che, a parte Petronio e altri autori tardo latini, nella nostra tradizione c'è la poesia, il racconto, l'epopea cavalleresca, la letteratura scientifica e i sermoni, prima di arrivare a Casanova. Occorre arrivare all'Ottocento e all'imitazione dei romantici francesi e inglesi per affermare il romanzo. Certo dall'Ottocento in poi di romanzi se ne sono scritti ma non abbiamo mai eguagliato in questo genere altre letterature europee. Invece nella poesia soprattutto Dante e Petrarca non hanno eguali. E venendo ad oggi, forse troppi si riconoscono poeti, pensando di avere quella cifra nel DNA. Ma certo, con l'industria culturale, gli equilibri si sono spostati. La poesia, tranne casi particolari, che appunto fanno riferimento anche a straordinarie esperienze di vita, come nel caso della Merini, non conosce, da noi, grande diffusione. Questo non toglie che il paese pulluli di poeti.

Uno dei temi centrali della tua opera rimane il rapporto con la scienza. Quanto credi sia importante ribadirlo soprattutto in un'epoca di preoccupante ritorno a integralismi politici e religiosi?
Il rapporto con la scienza è importante sotto il profilo intellettuale e sotto il profilo politico. Mi meraviglio sempre molto di quanto il culto delle immagini abbia forza nel nostro paese, trascinando con sé l'impossibilità di essere logici. Torno da un recente viaggio a Padova dove ho visitato la basilica del Santo. Quando vedo la gente genuflettersi davanti a statue di gesso, marmo, legno o altro materiale, baciarle con devozione mi chiedo come possa essere smarrita la memoria del pezzo di bruta materia che erano. Invece molti credono che una divinità o un santo taumaturgo abbia deciso di rinserrarsi proprio lì. Non serve la scienza per restare scettici. Il fatto è che molti hanno bisogno di statue miracolose e altri guadagnano su questo bisogno. La scienza aiuta a sentire la vita palpitare intorno e dentro di noi, a rispettarla in ogni sua forma, facendoci vergognare oltre che del razzismo anche dell'antropocentrismo. Tutta la mia scrittura si basa su questi presupposti.

La figura di Ipazia sta tornando in questi giorni alla ribalta, grazie a un film e ad alcuni libri che le sono stati dedicati. E' una donna coraggiosa, una studiosa, che paga con la vita le sue scelte di libertà mentale. Ti sei mai occupata di questa geniale figura, vittima dell'incomprensione e della violenza più fanatica?
Sì, certo. Bisognerebbe studiare meglio quel periodo di storia quando l'impero romano da società aperta a tutte le religioni, decise di stabilire che il cristianesimo è l'unica religione di stato. Studiare la storia dei martiri pagani, delle conversioni forzate. Ho fatto una conferenza su Ipazia, ma non ne ho scritto mai se non in una nota su Lucreziana 2008.

Cosa vuol dire essere un "libero" pensatore oggi nel nostro Paese? Quanto è difficile rimanerlo?
Liberi pensatori erano i libertini, che nel Cinquecento si opponevano alla Chiesa e volevano avere pensieri e comportamenti liberi. Furono perseguitati ma nel Settecento riaffiorarono, contribuendo al sorgere dell'Illuminismo. Penso spesso che la mentalità degli intellettuali del Sette e dell'Ottocento era più libera di quella di molti intellettuali di oggi, che non vogliono scandalizzare e soprattutto vogliono essere amici dei potenti. Credo che se una buona parte di chi pensa con la propria testa si liberasse della televisione, ci sarebbe una rivoluzione incruenta, ma vera rivoluzione. In proposito fornisco un altro piccolo dato biografico: l'apparecchio televisivo non ha mai passato la soglia della mia casa e davvero non me ne sento priva. Credo che questo mi permetta di essere libera dalla pervasività dei persuasori occulti o manifesti. Per quanto concerne la lingua e le parole, credo che sia una misura che limita l'inquinamento della volgarità e mediocrità verbale.

Tu hai pure vissuto bellissime esperienze di attrice e di regista, in anni in cui il femminismo italiano apriva delle strade notevoli negli ambienti culturali della capitale. Cosa ricordi di quell'epoca? Cosa potresti raccontarci?
Durante il periodo del femminismo storico si era aperto a Roma un teatro in via della Maddalena ed era gestito da un gruppo femminile, letterate che scrivevano testi e li mettevano in scena. Alternando la mia attività di giornalista culturale al teatro ho scritto, tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli Ottanta, per quel teatro, Monstra te esse matrem - L'assoluto materno e Gertude Stein: Sole controsole, due testi assai diversi, uno basato sulla libera rielaborazione di esperienze personali, l'altro incentrato sulla storia d'amore tra Alice B. Toklas e Gertrude Stein, basato sui testi della Stein medesima. In nessuno dei due spettacoli comparivo come attrice, mentre solo nel primo avevo collaborato anche alla regia. In quel periodo ero anche in scena, per un teatro-laboratorio che curavo presso il Teatro Alberico, in Via Alberico II. Mettevo in scena un mio racconto, I vicini di casa, e m'incrociavo, noi al pomeriggio, lui alla sera, con Roberto Benigni che recitava lì, in un nudo spazio, sotto una lampadina, il testo che aveva scritto con Giuseppe Bertolucci: Berlinguer ti voglio bene. Anche noi volevamo molto bene a Roberto e certo ci rendevamo conto di quanto fosse bravo, anche se forse non avremmo immaginato come rapidamente sarebbe schizzato lontano. In quel periodo mi mostravo anche in occasione di teatro di strada, dove la Maddalena si univa a gruppi femminili stranieri. Più tardi per tre anni successivi, sono tornata in scena con un mio gruppo di allievi–attori francesi, a cui facevo recitare testi italiani. Ero lì come regista sulla scena, un po' alla maniera di Kantor. L'opera più recente di scrittura teatrale è stato di un monologo basato su un montaggio di testi del Petrarca, scritto nel 2004, in occasione del settimo centenario della nascita del poeta. S'intitola L'invidia degli amici, ed è stato pubblicato sulla rivista "pagine".

Un'altra sfera importante del tuo lavoro è quella che riguarda la traduzione. Tu hai tradotto poeti importanti. Quanto è stato utile all'interno della tua carriera? Cosa ti offre l'opportunità di tradurre un'altra voce?
Ho già parlato di esperienze remote e preparatorie, come le traduzioni dei lirici greci. Amavo molto anche allora, nell'adolescenza, trasportarmi in luoghi e personaggi altri, altre voci da sovrapporre alla mia. La traduzione è sempre per me, una vacanza, un viaggio, un riposo e insieme un impegno forte, etico. Per poco vivo nell'altra voce, nel rispetto di quella voce, dalla quale mi lascio penetrare. Per me, materialista convinta, questa è la forza dello spirito. E' quella materia invisibile, come suona il titolo di una mia raccolta di poesie, che ci raggiunge attraverso tempi e spazi che noi non riusciamo a percorrere. Scrivevo in I poeti e la città che a Roma, le tombe di Keats e Shelley, due poeti romantici decisamente materialisti, sono meritamente in uno dei luoghi più intensamente spirituali della città, nel silenzio e tra il verde del cimitero presso la Piramide Cestia.

Tu hai sempre vissuto a Roma, in via Giulia, una storica via della capitale i cui cambiamenti anche urbanistici sono fondamentali per comprendere la più ampia metamorfosi della cultura e del costume nel nostro Paese. Come hai visto cambiare la città e la splendida via in cui risiedi nel corso degli ultimi trent'anni?
Via Giulia ha compiuto nel 2008 i suoi cinquecento anni, festeggiati con discrezione. L'ultimo mutamento sul suo tracciato era stata una ferita rimasta aperta all'altezza del Ponte Mazzini, durante l'ultimo periodo fascista. Non so bene quale fosse il progetto che sottintendeva quella demolizione che è rimasta così fino ad ora. Solo recentemente si è parlato di sanare quel vulnus secondo criteri utilitaristici progettando un parcheggio interrato. Ma i lavori sembrano fermi. A Roma oggi, non si costruisce più con la rapidità degli imperatori o dei papi. Quello che mi diverte è che, evidentemente, con le mie recriminazioni sui mutamenti che hanno cambiato la posizione e il significato di questa strada – i lungotevere e Corso Vittorio costruiti alla fine dell'Ottocento, quando ancora questa non era la "mia strada" – sono riuscita a dare anche ad altri l'impressione che questi torti fossero stati inflitti in tempi recenti. Questo fa parte della mia natura immaginativa: cammino per la strada e cerco di vederla come era quando l'accesso al fiume era libero. Spero che le scavatrici per i parcheggi si fermino, spero che tolgano le barriere di plastica del cantiere e che su questa via si torni presto a respirare la sua aria un po' imbronciata, un po' museale. In proposito, Luigi, ricordi? ho dedicato proprio a te e al sogno dell'atmosfera antica su questa strada una poesia della mia ultima raccolta L'equazione e la nuvola.

Qualche ricordo della Roma che non c'è più. Ci sono situazioni, esperienze, stimoli che ti piacerebbe rivivere?
Ricordo, alla prima crisi energetica, le domeniche a piedi. Se il tempo era bello, fresco e luminoso, una vera festa! Ora il turismo mi sembra eccessivo, invadente e anche un po' ottuso e distruttivo. Così penso almeno quando vedo le lunghe file che, pioggia o vento, restano ferme in attesa di entrare ai Musei Vaticani tra fogli di carta e lattine abbandonate in giro. Questa obbligatorietà della visita a quei musei è nata solo dopo i restauri della cappella Sistina e i capitali spesi per quell'opera. Capitali che adesso saranno abbondantemente rientrati.

Prossimi progetti ai quali hai già in mente di lavorare?
Ho parecchi progetti ma preferisco non parlarne. Sembra non porti bene.

Luigi La Rosa

Nelle foto, dall'alto verso il basso, Piera Mattei appare:

foto 1: sotto la neve, a Campo dei Fiori;
foto 2: con Luigi La Rosa alla libreria Odradek di Roma;
foto 3: da sinistra con Walter Veltroni, Pietro Spataro, Pietro Ingrao, Valerio Magrelli;
foto 4: con Valerio Magrelli;
foto 5: con Vito Riviello alla Cabot University di Roma;
Il resto delle foto sono di proprietà dell'autrice e sono state pubblicate su gentile concessione. In merito invece alle immagini di Dante, di Ipazia e del Cimitero dei poeti, le foto sono di proprietà dei seguenti siti, pertanto nel caso in cui i siti proprietari avanzassero delle rimostranze ci dichiariamo immediatamente disposti a rimuoverle:

http://www.sqtradiometeo.it/images/Firenze%201a%20storia/Dantesqt.jpg
http://www.girasoleonline.org/public/17%20hypatia.ipg
http://images.voiaganto.it/italia/lazio/roma/recensione-cimitero-acattolico-roma-P11496PZ.jpg