lunedì 5 dicembre 2011

Editoria: mestiere, vocazione e tante scelte coraggiose...














A colloquio con Sandro Ferri,
che nell'illuminante volume

"I ferri dell'editore"

raccoglie riflessioni, spunti,
considerazioni ed esperienze
personali
legati a oltre trent'anni d'attività
nel ca
mpo dell'editoria
italiana e internazionale.

Un modo per
capirne di più,
attra
verso la voce di uno
dei più autorevoli e interessanti editori

del nostr
o panorama letterario.

Basta leggere qualcuno dei coinvolgenti romanzi di Maupassant o di Dickens per farsi un'idea precisa di cosa dovesse rappresentare il mestiere dell'editore in epoche lontane come l'Ottocento o i primi decenni del secolo scorso. La letteratura ha conferito a questa particolare figura un alone leggendario, dorato, e l'antico artigiano designato dalle storiche vignette o riemerso dai traboccanti ritagli ingialliti dei feuilleton diviene ben presto una sorta di eroico timoniere, alla guida di una nave percossa dalle tempeste culturali, con gli occhi rossi dalla fatica e la mente abbagliata dalle soluzioni tipografiche. L'editore è anzitutto un talent scout, uno scopritore, un intellettuale dalla vista sorprendente, abituato a scrutare nel mare magnum delle possibilità per adocchiare il talento, vederlo brillare come uno scintillio di specchi o riconoscerlo nella creta disposta a farsi modellare da abili mani. Se ripensiamo a figure come lo stesso Balzac (lo scrittore fu a capo di una rinomata stamperia parigina, e più volte tentato da accattivanti progetti editoriali), o ai coniugi Woolf (l'arguto Leonard e la geniale Virginia, sostenitori di scrittori del calibro della Mansfield o di Forster) ci rendiamo subito conto di quale grado di intelligenza, passione, vocazione e spirito di sacrificio un mestiere come questo abbia sempre richiesto in chi lo pratichi, suggerendo una preziosa visione personale nell'ambito del costume e della sensibilità sociale collettiva. In giorni non troppo lontani dai nostri l'editore è stato un maître-à-penser, un arbitro della bellezza, il testimone raffinato e colto del pensiero, dell'estetica dei tempi.

Con gli an
ni, la realtà è cambiata, e mercato e pubblico si sono trasformati sotto i dettami di un capitalismo sempre più imperante e aggressivo. Ci chiediamo allora cosa sia diventata oggi la figura dell'editore - quale prestigio ancora detenga, quali responsabilità le vengano naturalmente attribuite. Scegliere e investire nell'oceano imperscrutabile delle possibilità contemporanee dev'essere qualcosa di oggettivamente difficile e rischioso, che richiede abilità, perspicacia, ma più d'ogni altra cosa lungimiranza e coraggio. L'editore deve comprendere, deve vedere oltre, rischiare in prima persona. Deve pertanto possedere l'intuito della preveggenza, per capire laddove si annidino potenzialità e valori. Devono insomma appartenergli originalità di visione, capacità d'analisi, e una sana, irrazionale dose d'intraprendenza. Qualità che negli anni hanno sostenuto e caratterizzato fortemente le scelte di Sandro Ferri e Sandra Ozzola, alla direzione delle edizioni E/O.

La casa editrice romana - giunta quest'anno al suo trentatreesimo anno di vita, e con all'attivo successi internazionali come L'eleganza del riccio di Barbery Muriel, Una bambina e basta di Lia Levi, Amabili resti di Alice Sebold e Settanta acrilico trenta lana di Viola Di Grado, solo per citarne alcuni - si è caratterizzata fin dal principio per l'assoluta novità delle proposte, e la forza, la freschezza, l'originalità delle offerte editoriali. Meritoria e notevole l'idea di aprirsi al mercato degli scrittori dell'Europa dell'Est e in seguito di numerosi altri paesi e culture del mondo: è infatti proprio su questo fronte di dialogo interculturale che la casa editrice ha scovato delle autentiche meraviglie letterarie. Si pensi alle opere del congolese Jadelin Mabiala Gangbo, o della scrittrice tedesca Christa Wolf. O a quelle del libanese Sélim Nassib. E ancora all'ambito del noir mediterraneo, valorizzato da due presenze ormai storiche nei cataloghi di E/O, ovvero quelle degli scrittori Jean-Claude Izzo e Massimo Carlotto. In ultimo, l'intuizione geniale di approdare al vasto mercato americano, con la creazione nel 2005 di Europa editions, trampolino di lancio negli Stati Uniti per molti dei nostri autori italiani.

Tutto questo è frutto dell'impegno, ma anche di una precisa poetica intellettuale. Una poetica dell'impegno, ecco come mi piacerebbe definirla. Ne discuto con Sandro Ferri, prendendo spunto dall'uscita de "I ferri dell'editore" - il breve manuale che l'editore ha scritto mettendo a frutto la sua testimonianza e la sua esperienza sul campo. Oltre un trentennio d'attività, di scouting, di ricerca della qualità. E soprattutto, tre decenni di attenta riflessione, di studio, di soddisfazioni. Sandro Ferri risponde alle mie domande con grandissima cortesia, e con quella nota di consapevolezza, quella luce nello sguardo, che è di chi conosce ormai bene i meccanismi interni dell'universo editoriale, e ha deciso di raccontarli con onestà, laicità e schiettezza.

Un manuale, che è anche una testimonianza, una sorta di dialogo aperto con il pubblico dei lettori. Dove nasce l'esigenza di questo libro?
Nasce dalla constatazione che semp
re più spesso negli ultimi tempi mi è accaduto di trovarmi in mezzo a persone - perlopiù non addetti ai lavori - che non avevano ben chiari la figura e il ruolo dell'editore. Mi è successo maggiormente con le nuove generazioni, con i giovani. Ho sentito in più d'un caso i loro dubbi, le loro perplessità. Allora, prestando le riflessioni della mia esperienza diretta in ambito editoriale, ho pensato di spiegare il mio punto di vista in proposito: pertanto il ruolo, l'importanza, le difficoltà dell'essere editore in un'epoca complicata e contraddittoria come la nostra.

I nuovi territori di internet, delle pubblicazioni on-line. Che cosa ha comportato la diffusione del virtuale sul piano strettamente culturale ed editoriale?
Una grande trasformazione, sicuramente. Vi sono cen
tinaia, migliaia di dimensioni editoriali alle quali uno scrittore esordiente oggi si può rivolgere. Tuttavia, io credo che i limiti di questa mutazione siano abbastanza evidenti: accedendo con maggior facilità ai sistemi di pubblicazione viene ovviamente a mancare quel ruolo di "filtro" che gli editori hanno invece sempre garantito in termini personali. Questo ruolo, per così dire, passa direttamente attraverso il pubblico, il grande pubblico degli internauti, ma sappiamo bene che non sempre il pubblico è in grado di scegliere al meglio. Non sempre il successo premia scelte qualitative, o di livello. Mi piace ribadire quel che sosteneva Calasso: l'editore dà forma a una proposta. Io condivido pienamente questa posizione, perché credo sia proprio questo il nostro ruolo e il nostro lavoro. Dare forma a proposte, dare forma a proposte di pensiero e di arte. Perciò comprendo pure il normale spaesamento dei lettori davanti a tanto cambiamento.

Tale metamorfosi non comporta anche il pericolo di smarrire quelle vecchie, sagge attenzioni che gli editori di un tempo dedicavano alla cura, al confezionamento, alla distribuzione fisica dei libri?
Chiaramente è così. Il rischio è grande. L'impegno che gli editori mettiamo nella proposta di un testo è anche un impegno di natura artigianale, di cura concreta del prodotto. Giulio Einaudi guardava a com'erano allestiti i libri, li analizzava materialmente, li seguiva fin nei minimi dettagli. Dovrebbe essere un esempio per tutti coloro che fanno questo mestiere. Oggi, d'altra parte, siamo purtroppo sempre più obbligati a gestire un numero di mansioni enorme, per cui si rischia di smarrire quella stupenda concentrazione, quel pregio innegabile, che io ritengo ancora fondamentali, e importanti nel diffondere un bel libro in mezzo alla gente.

Lei trascorre parecchio del suo tempo all'estero. Qual è l'immagine del nostro paese in ambito internazionale? Che mercato hanno i libri italiani fuori?
Io posso parlarle soprattutto della realtà americana, che è quella che conosco meglio. In genere devo dire che purtroppo non si traduce moltissimo dall'Italia. E' vero che la crisi riguarda in generale un pò tutti i mercati del pianeta: in linea di massima, pure le vendite di molti degli scrittori esteri negli ultimi anni si sono notevolmente abbassate. Negli Stati Uniti solo qualcosa pari al 3% dei libri editi in lingue diverse dall'inglese viene solitamente tradotto e venduto. E' una situazione difficile, che dovrebbe chiamarci tutti in causa.

E' in tal senso che la casa editrice E/O ha pensato di fondare "Europa Editions"?
Sì, l'idea sostanziale era quella di colmare un vuoto, dando voce laddove c'era silenzio. Abbiamo cercato di fare da apripista, lavorando attraverso il rapporto con le librerie indipendenti e facendo in modo che i nostri migliori autori trovassero pian piano uno spazio altrove. Si è partiti con alcuni dei nostri nomi di maggior riferimento, per rivolgerci man mano ad altri. Abbiamo tradotto Elena Ferrante, Massimo Carlotto, Lia Levi, Stefano Benni, Alessandro Piperno, Diego De Silva. Nuovi scrittori sono pronti per essere tradotti e diffusi. Alcuni degli autori proposti hanno perfino toccato le 10, 20.000 copie di fatturato. In 6 anni di impegno abbiamo ottenuto dei risultati ottimi, e attualmente siamo l'editore che pubblica più libri tradotti all'estero.

Quello che colpisce di più ne "I ferri dell'editore" è il suo grado di leggibilità. E' un testo che si legge con piacere, perché ci accompagna nella dimensione interna e tecnica dell'essere editore senza trascurare neppure per un istante il piacere della scoperta, dell'intuizione legate all'indagine artistica. Lei parla di incontro con i libri, ma soprattutto con delle potenziali promesse di talento, dietro le quali l'editore deve essere in grado di scorgere voci, stili, forme di bellezza. Quanto l'ha sorretta nel suo lavoro questa passione deduttiva?
Per me rimane fondamentale. Ricordo ancora con emozione certe letture - certe prime letture -, dietro alle quali ho avuto modo di intuire dei grandi libri e dei grandi futuri scrittori. La cosa più bella resta questa gioia dell'incontro: incrociare una scrittura nuova, incontrare un'arte che ti regali uno sguardo innovativo sul mondo. In molti casi si lavora poi insieme all'autore, per perfezionare ciò che è già dentro il libro, consentendogli di raggiungere maggiore chiarezza, una più profonda coerenza. E' questo ad alimentare la passione che ci sostiene: il fatto che l'editore compie comunque una scelta di natura "soggettiva", che scommette mettendo in gioco la sua sensibilità, il suo gusto, le concezioni estetiche di cui è in possesso.

Lei ha chiaramente conosciuto, incontrato, valorizzato moltissimi scrittori di tutto il mondo. Ci sono ricordi ai quali è particolarmente legato?
Di ricordi ne ho tanti, perché hanno accompagnato e accompagnano ancora la mia vita. La recente scomparsa di Christa Wolf ha fatto ad esempio riemergere tutto un brulicante orizzonte di storie e aneddoti legati agli scrittori dell'Est. Aver visto e conosciuto un ambito così diverso e ormai così lontano rimane per me un fatto di orgoglio e grande emozione. Era un universo difficile, rarefatto, in parte come congelato a prima dell'Impero austro-ungarico. Tali erano le atmosfere, gli incanti che ne affioravano. Due sono a tal proposito gli scrittori che mi commuove sempre ricordare: Kazimierz Brandys, autore di un bellissimo romanzo intitolato "Rondò", e Bohumil Hrabal, narratori, artisti che hanno evocato le sfumature magiche di una Praga che non c'è più.

Possiamo concludere con due parole su "Rondò", questo romanzo a lei così caro?
Si tratta di un romanzo a mio avviso straordinario, appassionante e tenero. E' la vicenda di un giovane, che nella Varsavia occupata dai nazisti, per amore di un'attrice s'inventa di far parte di una rete di Resistenza. Gli eventi si succedono a un ritmo incredibile, e nonostante la serietà dello sfondo storico, il tono ha qualcosa di fortemente vitale e giocoso, in grado di sovvertire completamente il quotidiano. Ebbene, sono questi i libri che ti fanno chiedere dove stia il confine esatto tra verità e finzione. Se un simile confine ci sia poi per davvero. Forse, per questo li ami, e li custodisci nella memoria, per questa loro carica dirompente, sagacemente trasgressiva. E mi piace moltissimo pensare a quelle scelte individuali che hanno dentro un'energia di rottura talmente forte, da ribaltare in maniera definitiva la realtà in cui crediamo di vivere.

Luigi La Rosa



si ringrazia Gabriella Fago e la casa editrice
per la gentile concessione delle fotografie
che ritraggono, in ordine di apparizione:
1 - Sandro Ferri e Sandra Ozzola,
2- Sandro Ferri, Sandra Ozzola e Eva Ferri;
3 - Sandra Ozzola e Massimo Carlotto


l'immagine dello stampatore utilizzata all'interno
del pezzo è inoltre di proprietà del sito:


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mercoledì 13 luglio 2011

Quel fuoco sfavillante sotto la polvere...

Attraverso l'alchimia
delle passioni e
delle contraddizioni,
la ricerca di una donna sola, coraggiosa,
costretta a ripensare
al futuro e a rimettere
completamente in gioco
la sua vita e il ricordo
del proprio uomo...

Tenera, confusa, vera e irriverente,
la protagonista di "Scusate la polvere", il nuovo romanzo di Elvira Seminara, è una donna che si racconta con la struggente necessità di chi ha bisogno di capire. Una commedia nera e brillante, acuta e piena di humor, cattiva e sublime insieme, che conquista il lettore dalla prima pagina all'ultima, divertendolo, e lasciandogli in bocca
una commozione che ha l'impalpabile retrogusto della sorpresa
...

Ogni volta che mi trovo davanti a buona parte della letteratura siciliana vengo colpito da una duplice dolente impressione: quella calda e rassicurante di starci "dentro", e l'impressione ribelle, meticcia, trasgressivamente personale di volermene restar "fuori", appartato, discosto per collocazione anagrafica quanto per sensibilità e dimensioni dello sguardo. Di farne parte, insomma, e di trovarmi oltre. Altrove. In un territorio alieno, assai più vasto e consonante alle mie corde segrete e ai miei spasmi di fuggitivo.

Sono pochi gli scrittori - Sciascia e Bufalino, per citarne alcuni (pochissimi i contemporanei) - che davvero, completamente, mi fanno percepire la coesistenza incantata di quei mondi altri, che il narratore puro deve avere la forza di sentire, di contemplare, ai quali guarda e dei quali si fa cantore, senza per questo tradire l'animo mediterraneo e quel sentire isolano che da sempre caratterizza la complessità delle nostre radici sociali e cu
lturali.

Mi scopro distratto da orizzonti più densi e più complessi, che guardano a storie lontane, veri e propri edifici affabulatori a noi sconosciuti per tempo e
spazio, che mi rendono figlio di lingue e linguaggi non miei. La letteratura francese, ad esempio, quella tedesca, l'americana, l'anglosassone: tutti ambiti e giardini felici, che hanno forgiato e rafforzato la mia passione per la parola, nei quali ripescare ricordi e déjà vu.

Ma pure tra gli scrittori siciliani ci sono tuttavia fertili eccezioni. Scrittori che guardano al di là di regionalismi e di futili confini, che hanno un'attenzione profonda alla realtà, aderente alle cose, partecipe dello spirito del mondo. Uno di questi è Elvira Seminara, che già col precedente romanzo, L'indecenza, era riuscita a fondere magnificamente le atmosfere torbide e gotiche della dimensione siciliana alle sfere del dissidio interiore, della crepa psichica, della ferita esistenziale, regalandoci un affresco famigliare di notevole complessità e spessore. Dimensione che tornava pure nelle storie de I racconti del parrucchiere, sorta di moderno canzoniere dell'attimo, racconti del malessere e della ricerca (o della perdita di sé) all'interno della dimensione metropolitana - contemporaneità filtrata alla luce del mistero e della comprensione letteraria.

In questi giorni, l'autrice torna in libreria col nuovo bellissimo Scusate la polvere (Nottetempo), che co
nsiglio a tutti per l'ampiezza della visione, la ricchezza di spunti e prospettive, e la brillantezza del racconto, che si snoda dal principio alla fine con una freschezza e un'ispirazione di tratto davvero invidiabili. Un libro che guarda ai grandi modelli anglosassoni, che slaccia l'avventura narrativa da qualunque presupposto di localismo e provincialismo, per indagare un dramma tutto umano che si carica a ogni rigo di diverse componenti emozionali: rancore, paura, sofferenza, rimpianto, stupore, tenerezza. Sfumature che Elvira Seminara racconta col piglio di un'attenta osservatrice - una scrupolosa ritrattista del vero.

Voglio proprio partire da dove tutto ha inizio: dal pomeriggio di luglio in cui mi ritrovo questo libro tra le mani e incomincio a sfogliarlo, in una delle sempre più lunghe e frequenti passeggiate romane pomeridiane. Uscire nel crepuscolo con in mano un libro da leggere - poche altre città offrono un piacere tanto intenso. Sarà la dimensione dolce della luce, e la morbidezza del cielo dietro i tetti della capitale. Sarà l'ansia di divorare storie, sempre sul punto di strapparti al caos del giorno e precipitarti tra le nebulose dell'inganno letterario. Fatto sta che la storia di Scusate la polvere mi rapisce letteralmente, con quella tenacia di seduzione che hanno i libri autentici, quando diventano padroni del tuo tempo, dei tuoi impegni, della tua volontà. Della tua vita.

Elvira Seminara è uno dei pochi autori che conciliano i miei gusti letterari "esteri" con la buona scrittu
ra siciliana - per la modernità delle invenzioni, per l'originalità delle intuizioni, per la forza di uno stile sempre innovativo e mai uguale a se stesso. O forse, soprattutto, per la verità delle storie che il teatro della parola mette in scena. E il teatro della vita - perché teatrali sono le situazioni, le contraddizioni, gli strazi degli amabili personaggi del libro. Teatro è il titolo - irriverente, provocatorio, geniale e giocoso quanto l'epigrafe che Dorothy Parker - la celebre scrittrice e giornalista americana, che dissipò la sua esistenza tra le luci della ribalta culturale e gli abissi del proprio tormento individuale - volle sui marmi della propria tomba. Teatro sono gli inganni dei quali è vittima Coscienza - dalla più esilarante declinazione del nome che il circolo delle amiche fervidamente le attribuisce -, e un assoluto coup de théatre è il toccante finale che chiude il cerchio della vicenda, e con esso delle attese del lettore.

Dalla Parigi raffinata di rue de Rivoli - città eterea e spumeggiante, talmente bella da sembrare avvolta in una perenne nebbia di tulle - alla Sicilia dell'imprevisto e della tragedia. Una telefonata, un annuncio di morte, la perdita del marito e un lutto dolorosissimo da elaborare. Perché questo misterioso marito - narrato in absentia, e quasi ombra di teatrale suggestione pure lui - non era affatto solo. In macchina, a precipitare nel fosso al suo fianco, ecco la presenza improvvisa di una donna. Un'altra. La rivale. Coscienza deve accettare l'intollerabile scoperta del tradimento, cercando di tirarsi fuori dalla disperazione e abbozzando una prima mappa di sopravvivenza.

Da qualche tempo Coscienza vive scrivendo tesi per studenti fuori corso, come l'avvenente Jacopo, con la sua aria low-cost, strapazzata e vaga. Si circonda di amiche stravaganti, disposte a dividere con lei gli amari morsi della vita. Mia, esperta di catering creativo, e vera e propria artista del gusto. E Alice, ex interior designer e sorta di alter ego della protagonista, tutte quante impegnate nel faticoso traghettamento verso l'emancipazione e il superamento delle proprie solitudini. La trama tesse insieme le giornate di questi credibilissimi personaggi, conferendo alla struttura della storia i toni di una partitura musicale: i bassi del dolore vengono armonizzati dai fiati della speranza e della rivincita, e quando i violini dell'amore mancato e della nostalgia sembrano stridere impazziti, c'è sempre un a solo che consente di voltare pagina, di ricominciare l'avventura laddove la morte pareva averla violentemente cassata.

Briosa, mozartiana, acuta e a tratti commovente, la trama del romanzo di Elvira Seminara ci restituisce una vera e propria commedia degli equivoci, in grado di cucire gli opposti in un unico disegno raffinato e spiritoso, umoristico, intelligentissimo e pieno di invenzioni. Le più interessanti sono proprio quelle del linguaggio: azzerato, reinventato, forgiato su un continuo senso ludico della sfida e della sorpresa, uno strumento flessibile, che si piega alle esigenze del racconto con profonda umiltà, brillando laddove le trovate vengono fuori come insospettabili accensioni, epifanie del sorriso, tocchi salutari all'opacità del vivere e del pensare.

Partiamo dal titolo: scegliere Dorothy Parker è già indice di una precisa poetica di trasgressione e originalità. Com'è giunta a tale scelta?
Scusate la polvere è l'epigrafe che Dorothy Parker ha voluto sulla sua tomba, l'ultimo scherzo sulle sue ceneri. Volevo una storia così, che facesse strage dei luoghi comuni, della retorica libresca e sentimentale che ci sommerge.

L'irresistibile storia di Coscienza nasce bizzarramente da un lutto. Ma attraverso l'invenzione continua della scrittura e l'uso delle metafore che arricchiscono e rendono vivo il tono del racconto, lei riesce a fare della sua vicenda qualcosa di più stratificato e più complesso. Scusando il bisticcio di parole - la storia di una presa di coscienza, di un riposizionamento nel mondo, di un nuovo sguardo sulla realtà dei sentimenti e del vissuto. Qual era l'idea di fondo che l'accompagnava mentre scriveva?
La parola "coscienza" è fra le più pronunciate in Italia. Facciamo continui appelli alla coscienza, cerchiamo di risollevarla o risvegliarla tra coscienza sporca e coscienza pulita, coscienza etica o civile! Mi piaceva l'idea di battezzare con questo nome impossibile una donna ironica e stravagante, cinica per innocenza, magica per necessità. E poi è bello seguire le sorti del suo nome, c'è chi la chiama Cosce, chi Scienza, chi Enzima, chi Zen o molto più prosaicamente Enza. In fondo, da Cosce a Zen c'è tutto l'arco di possibilità di una stessa donna, no? Beh, sì, in coscienza mi sono divertita molto a raccontarla. Nello spirito ebbro e irriverente di Dorothy Parker, of course.

Nel romanzo si avverte una certa urgenza delle passioni, che diventa anche l'urgenza della protagonista di far luce sul rapporto col fantasma del marito. Il ritmo è fluido, ininterrotto, musicale. Quali sono stati, pertanto, i tempi della redazione dell'opera?
L'ho scritta in un flusso di Coscienza, appunto. Un mese. I fantasmi, inclusi quelli letterari - ormai evocati non mi lasciavano tregua. Non ho mai riso tanto quanto durante la scrittura. In fondo, è una storia di spirito ma anche di spiriti. E forse per questo coliticamente scorretta.

La grande freschezza del romanzo sta anche nella capacità di raccontare un dolore attraverso l'eleganza, il brio, la luce calda di un sorriso. Questo "mix" felice e vincente è a mio parere il grande segreto dello stile di Scusate la polvere. Quanto è stato difficile - se lo è stato - raggingere tale particolare equilibrio espressivo?
La difficoltà tecnica era nel dosaggio, nella partitura delle note più diverse. Volevo una storia malincomica - scritto così: con la "m". Insieme struggente e umoristica. In punta di penna, senza forzare ma senza ghirigori. Come danzare sull'orlo guardando il cielo e insieme il fosso.

Sia nel precedente romanzo, L'indecenza, che in questo, il tema della crisi sentimentale e matrimoniale è al centro dell'obiettivo narrativo. Nell'altro libro la vicenda assumeva toni foschi, da romanzo gotico, per certi versi. Qui, invece, il tono è quello di una raffinata commedia, in grado di divertire e di commuovere il lettore. Due soluzioni diverse, che presuppongono la capacità da parte di chi scrive di assumere posizioni e intonazioni differenti. Quanto crede che per uno scrittore sia importante variare sguardi e punti di vista sulla propria materia narrativa?
Per crescere, nello stile come nella vita, devi contraddirti, dubitare, persino perderti. Quanto ai temi, penso che il sistema modulare della coppia si presti perfettamente a ospitare una scrittura della crisi. Non solo dal punto di vista tematico, ma anche tecnico, perché ogni crisi di coppia è un congegno narrativo perfetto: c'è dentro infatti il gioco delle identità, l'indagine, il conflitto, la nostalgia, l'ambivalenza, l'odio. Insomma, tutta la materia della vita. Una bolla esistenziale che esplode.

C'è qualcosa in cui Coscienza le somiglia? E qualcosa, di contro, per la quale è completamente diversa da lei?
Io penso che c'è un barlume di Coscienza in ogni donna. L'idea delle tesi bislacche in effetti è un pò autobiografica. Che avete capito, mica nel senso che anch'io come Enza le facevo in nero! Ma quando insegnavo a contratto nella facoltà di Lettere e assegna
vo le tesi, mi piaceva trovare tagli nuovi, non sempre bene accolti. E anch'io come lei ho il dolico-colon. Tutto qui. Giusto a fugare ogni dubbio, ho da qualche parte un diploma di laurea, non odio i bambini (ho due figlie meravigliose). E ho una distinta coscienza ecologica!

La protagonista del romanzo è una donna amabile, in grado di inventarsi continuamente, di mettersi in discussione, di affrontare il dolore senza retorica e atti eclatanti, ma mordendo i giorni, così come vengono, andando loro inc
ontro e cercando di fronteggiarli con destrezza e ironia. Qual è il suo personale rapporto di scrittrice e di donna con questo sentimento?
Visto che l'ironia, come la polvere, si può infilare dappertutto, cerco di praticarla più
possibile. E poi dovremmo smetterla di combatterla (la polvere) come un nemico. La polvere è amabile perché copre ugualmente ogni cosa, povera e ricca, e annulla le differenze, insomma è anche democratica e trasversale.

I suoi libri nascono da progetti preparatori accurati, lungamente premeditati, oppure sono frutto di quella che i più chiamano la cosiddetta "ispirazione"?

Progetti sì, ma non troppo precisi, e comunque facili da rinnegare.

Lei ama definirsi una "canta-scorie". Potrebbe chiarire maggiormente questo concetto?
Mi piace l'idea di recuperare gli scarti abbandonati fra le cose e i pensieri, certe parole in disuso perché fuori moda, certi sguardi spaiati che nessuno raccoglie, frammenti di idee, cocci. Riconvertire e ricliclare è il mio sistema di vita. Fabbrico anche gioielli e borse con cose rotte e perdute.

Toccante, il finale del romanzo, e il colpo di scena che in esso viene messo in asso. Quali sono state le reazioni dei lettori? Quante sono le donne che si sono ritrovate nei sentimenti, nei drammi, nelle difficoltà interiori di Coscienza?
Tantissime, ed è la sorpresa più magica di quest'avventura pericolosa e trasgressiva. Ricevo lettere di donne che mi dicono grazie per questi sorrisi ritrovati e contagiosi.

Ciò che mi colpisce nella sua scrittura è questa capacità di evocare luoghi e situazioni che vanno ben al di là della tradizionale letteratura siciliana. Il suo stile mi fa pensare piuttosto alla letteratura inglese, anglosassone, europea in genere. Ci sono maestri e punti di riferimento importanti nella sua formazione di scrittrice?

Beh sì, io amo Fay Weldon, Jonathan Coe, Iris Murdoch, Margaret Atwood, Alan Bennett.

Quanto influisce il suo mestiere di giornalista sullo sguardo letterario? Vivere in stretto rapporto con la cronaca l'ha resa una narratrice differente?
Sicuramente, prima ancora della sintesi e dell'efficacia, la cronaca ti insegna a osservare il mondo.

Un tema centrale nel romanzo è quello dell'amicizia tra donne. Non crede che la letteratura abbia ancora, per dirla con Virginia Woolf, l'inderogabile dovere di raccontare questa meravigliosa sfera dell'essere?
Certo, questo non è affatto un romanzo su un lutto, ma sull'amicizia femminile, la sorellanza.

In cosa si sente "siciliana" e in cosa, invece, lontana dalle dimensioni della nostra cultura?
Penso di avere già risposto dichiarando le mie passioni. Sono una siciliana transfuga, meticcia, migrante.

Un consiglio per un giovane o una giovane che sognano di raccontare storie?
Smettere di sognare e osservare gli altri, ascoltare il mondo.

Luigi La Rosa



In ordine di apparizione le fotografie utilizzate in questa pagina sono di:

1) Francesco Ruggeri.

2) Valerio D'Urso.


3-4) Marta Di Grado.


Si ringraziano gli autori per la gentile concessione...

giovedì 9 giugno 2011

Bellezza, dietro quei passi leggeri come vento...

Adelia Battista ripercorre
le motivazioni
della sua amicizia
con Dario Bellezza,
un legame

d'affetto e di corrispondenze
che supera il tempo e segna
il perimetro di una comunanza
umana e intellettuale.


un libro vero, intenso e profondo,
che raccoglie le lettere
di Anna Maria Ortese
al
poeta prematuramente scomparso
ma soprattutto un tributo a quei legami, a quei ricordi, a quelle emozioni che diventano storia esistenziale
e ragione di vita...


Com'ero da giovane?
Ero già postmoder
no dopo le ubriacature della Neoavanguardia letteraria; straparlando di morti e rinascite. Ero postmoderno nel sesso visto come vuoto residuo di un'incarnazione passata; nel sapermi diverso-nondiverso in tutte le contaminazioni degli Eros e degli Stili. Questi vecchi versi racchiudono oltre al sapore della mia trascorsa giovinezza anche un modo di concepire la poesia assoluto e intrigante, certo vicino a Rimbaud e a Dylan Thomas, a Kavafis e a Pasolini: i miei maestri del tempo. Ora metterli insieme mi sembra rendere omaggio ad un me stesso che non c'è più, oltre che ai miei maestri: mi sembra di voler adorare il passato: questo passato inimitabile che è l'infanzia di un poeta e di una poesia...

Dario Bellezza, Colosseo (Pellicanolibri, Catania 1985)

Il ricordo di Dario Bellezza è inestricabilmente legato nella mia mente
a quello di un mattino di sole, una giornata radiosa, trascorsa insieme all'amica Adelia Battista tra le lapidi del Cimitero protestante di Porta San Paolo, Piramide, Roma. La primavera sta per finire, il cielo su di noi è di vetro. Scivolo con devota serietà dietro di lei, dietro quei passi leggeri come vento, ma non parlo. Non lo fa neanche lei. Percepisco una tensione rispettosa, che carica gli sguardi, qualcosa di simile a un'emozione difficile da contenere. Non ci sono parole, e se ci sono non hanno suono, ma quello che stiamo attraversando non è un vuoto. Tutt'altro. Sembra quasi di sentire la consistenza dei pensieri. Riesco ad avvertirne il peso, l'intensità. Adelia mi precede di pochi metri. La sua non è affatto una fuga, ma una ricerca, un ritrovarsi, l'appuntamento con un amico di vecchia data, che il tempo non è stato in grado di strappare dagli affetti e dal cuore. Un amico divenuto eterno, come una statua. Già, proprio così. Un amico eterno, perché questo si dice dei poeti. Almeno dei più grandi. E lui lo era. Lui lo è.

Dario Bellezza consegna a questo paese di vergognosi oblii una delle più straordinarie testimonianze poetiche e letterarie dell'ultimo mezzo secolo. I suoi versi, la sua presenza pubblica e intellettuale, la concezione "altra" del vivere che non ha mai tradito né rinnegato ne fanno una sorta di monumento. Almeno agli occhi di quanti lo scoprivamo sulle prime antologie delle nostre maldestre adolescenze. O lo avremmo inseguito nei memoriali, nelle parole di chi è riuscito a incrociarlo, nel mito che un poeta, quando è autentico, stabilisce sempre intorno al proprio mistero. Ricordo fughe notturne, con le sue pagine sottobraccio. E apparizioni televisive nelle quali stentavo ad associare l'arcano poeta di quelle pagine al gentile signore dai grandi occhiali e dalle lunghe sciarpe bianche, che si rivolgeva ai lettori con tono pacato e sorridente. Nel mattino della nostra passeggiata al Cimitero Protestante, di tutto questo non c'è più nulla. Solo una tomba, semplice, nuda, tra le altre, che ricorda il passaggio dell'uomo e fissa lo spazio di una nuova devozione. Seguo Adelia Battista, ma mi trattengo a qualche passo da lei, dal suo silenzio, dal suo dialogo muto, toccante. E' il perimetro dell'ennesimo incontro caro, del tanto sospirato ritrovamento. Percepisco che qualcosa di grande sta accadendo, dentro l'aria accesa di Roma, nel mattino azzurro, in quel tempo immobile.

Vorrei che i miei movimenti si facessero leggeri quanto i versi di Dario Bellezza. Che risuonassero con la stessa divorante energia, invece di essere fruscio, spigolo, rumore dentro l'erba. Che vibrassero come in "Morte segreta" gli accenti della splendida pagina che il poeta dedica all'amica Anna Maria Ortese. "Ritorna primavera, e con essa gioventù, / il gusto alla vita ritorna che l'inverno rese / insapore e fondo di malinconia e pietà per i vivi / ritornati ad uscire dall'abisso scontento del gelo / di gennaio o del marzo piovoso." Ho la sensazione che nel giorno, nella fibra pulsante della luce, le parole stiano restituendo forma e consistenza all'amore. Alla giovinezza. Al perduto incanto dei giorni che non tornano. Ho la sensazione di una conoscenza assai più profonda, assai più sotterranea e vitale della contingenza del vivere, che supera stagioni, che sposa solitudini e segna riconoscimenti. Sono grato ad Adelia del meraviglioso dono di questa passeggiata.

Quegli stessi versi li ritrovo in Bellezza, addio - Lettere a Dario Bellezza 1972-1992 (Archinto), il libro in cui, proprio in questi giorni, Adelia Battista riunisce lo scambio epistolare tra il poeta e la Ortese
. La cura grafica, l'elegante copertina blu e il titolo assai simbolico m'introducono alla stessa magia, che mi si presenta come quel mattino, nel fondale della campagna incantata. "Riaprire le porte all'avventura" esorta il poeta, "dopo i mesi di febbre e di castigo, nello spazio / di memoria amaro e sconsolato. Ma ritornato / ancora una volta nella casa-inferno-tugurio / e ancella del peccato, di non peccare audace / irresoluto peccatore, ho aperto al vento / le finestre, all'aprile incostante cercando / di succhiare una nuova linfa vitale / che mi facesse chiudere nel cassetto / dei ricordi le vecchie impressioni di morte / e spavento luttuoso fino a morire lasciando / nel sogno ogni pensiero, senza alimento / per un futuro nuovo, libero finalmente da parole."

Adelia Battista compie un'operazione rispettosa e fondamentale: restituire i profili umani di Anna Maria Ortese e Dario Bellezza attraverso il legame profondo e la passionalità del loro scambio epistolare. Le contraddizioni del quoti
diano, le scure ombre del vivere, l'insopportabile accidia del tedio e di contro la folgore delle intuizioni, il fuoco bianco della mente, il lampo della creatività che accende progetti e stimola risorse a dispetto della deriva, tutto entra e fluisce come voci di una partitura nell'algebra suggestiva e affascinante di questo grandissimo libro. "Sono stata triste infinitamente" scrive la Ortese, in data 21 ottobre 1972, "per due notti non sono nemmeno andata a dormire. [...] Tu sei uno scrittore - e di tante cose hai angoscia - forse mutismo - m'immagino che puoi capire." Come non smarrirsi davanti alle labbra ferme dell'amico-poeta, davanti al suo vuoto di parole, alla sua sofferta sintonia? Quel mutismo che dilaga tra gli strazi del cuore è la prova più struggente di una vocazione all'altro che non si ferma neppure davanti agli ostacoli delle cose, che non indugia sotto le minacce brute della contingenza, ma che chiede conforto, comprensione, adesione nell'unica consapevolezza possibile: quella dell'amicizia fraterna.

Certamente, la vita non risparmia nessuno. Non risparmia la scrittrice, solitaria e discosta davanti a un'editoria sempre più sorda, sempre più meschina, che pare oscuramente anticipare la realtà dei giorni nostri. Non risparmierà Bellezza, dall'insorgere devastante dell'Aids e dal declino dei tristi ultimi anni che lo attendono. Ma poco importa. La scrittura s'incaricherà di narrare questo dolore e farne materia del sogno, questo dramma intimo, intellettuale, personale, eterno, che il rispetto giornalistico e critico di Adelia Battista lascia filtrare attraverso la parabola di uno scambio sincero, autentico, bruciante quanto le miserie dell'esistere e poetico come le stesse inquietudini che innesca sulla pagina. La scrittura renderà questo connubio un vero e proprio romanzo, fatto di cadute e di estasi, e riconsegnerà il fare letterario allo statuto delle cose "alte".

Non mancano gli scoramenti, i precipizi dell'animo, le pagine nelle quali il tono della confessione si fa accorato. "Carissimo Dario" scrive Anna Maria Ortese da Rapallo il primo dicembre del 1983, "da otto anni e più in Liguria, ho visto il deserto crescere intorno a me. Non puoi sapere fino a che punto. Spedisco delle lettere, ma è come se fossero imbucate sotto un albero. Le risposte arrivano quando ne ho quasi dimenticato il perché. Dietro i nomi, poco alla volta, non distinguo più niente. Mi chiedo se quelli che mi scrivono, sappiano davvero qualcosa della mia identità." Siamo alla radiografia dell'essere, a questo spoglio, sconcertante baluardo di solitudine contro cui l'artista di talento sembra perennemente condannato a combattere. Adelia Battista leva un altare a tanta fierezza, a questo orgoglio creativo che non si piega e non si frustra, né si abbassa, non mendica pietà ma impone, semplicemente, la levatura indiscussa delle sue visioni.

Dario Bellezza ci introduce all'universo amabile della conoscenza. Nell'intervista finale che accompagna il volume, è con parole d'affetto indeclinato che ci parla di Anna Maria Ortese e dell'idea che ha di lei. "Con tutti i difetti di un genio, perché essendo un genio non appartiene a nessuna categoria particolare, non appartiene alle donne, non appartiene agli uomini; vede troppo bene le cose, e poi, anche, le sa esprimere, questa è la sua genialità. Sembra strano che un paese abbastanza fiacco, come l'Italia, produca una scrittrice come Anna Maria Ortese." E' con queste parole che prendiamo congedo dalle pagine di questo delizioso libro e dalle ombre dei due grandi scrittori. Sono ombre lievi, come passi nel vento, i passi del mattino di Roma, a indicare che nonostante tutto, per i poeti forse un cammino ancora esiste. Lo stesso tracciato dalle parole disponibili e gentili di Adelia Battista, nel rispondere alle domande che le pongo.

Partiamo dal titolo, efficace e toccante, "Bellezza, addio..." Potremmo definire il tuo libro un tentativo di riportare l'attenzione sul nome e la figura di Dario Bellezza, grande artista in parte oggi dimenticato, e poeta che ha ancora tanto da comunicare in termini di bellezza e profondità di pensiero?
Il titolo Bellezza, addio, rappresenta il commiato malinconico di Anna Maria Ortese dal giovane poeta, Dario Bellezza, quando, il 31 marzo del 1996, le giunge la notizia della morte di lui. Ortese evoca l’amico che non c’è più ma che è nel suo animo. L’addio a Dario comprende anche l’addio a quel mondo sensibile di speranza e desiderio di cui lui ha fatto parte. Ortese serba memoria di un rapporto significativo fatto di attenzione all’altro, di scrittura, libri, fantasia, che l’ha accompagnata, tra gioie e amarezze, per oltre vent’anni, a partire dagli inizi del ’70, quando lei viveva a Roma, in Piazza Ennio, e stava lavorando al romanzo, Il Porto di Toledo. [...] Bellezza, addio, costituisce, inoltre, la porta d’ingresso per raccontare, attraverso le lettere che Ortese gli destina, dal ’72 al ’92, l’universo ancora sconosciuto che è in Dario e Anna. L’epistolario, infatti, contiene una messe d’informazioni sulla vita e le opere di entrambi, rispetto alla scrittura e alla creazione letteraria.

Il libro ritrae, con grazia e partecipazione, un sodalizio prezioso e irripetibile. Oggi, in epoca di individualismi imperanti e solitudini inguaribili, un simile legame costituisce una sorta di prezioso esempio morale. Cosa sono stati realmente l'uno per l'altra Dario Bellezza e Anna Maria Ortese?

Una grande amicizia va sognata. Il segreto del carisma della relazione tra Dario e Anna è costituito dalla capacità dell’uno di sognare l’altro e di farlo esistere: "Un grande amico che sorga alto su me / e tutto porti me nella sua luce”, scrive nei suoi bei versi Vittorio Sereni. Ortese sogna l’amico, ne intravede le potenzialità, lo spirito, la sensibilità, esprime gioia e apprezzamento per l’opera di lui. Quando tutto sembra rovini verso la dimenticanza e Dario è in crisi, lo ama e lo sostiene. Include la profonda inquietudine esistenziale di Dario nella propria speranza spirituale:“Io credo che ci sia uno spirito con tanti volti – scrive a Dario – e tu fai parte di questo spirito, o respiro eterno, (o Dio)”. Anche Dario sognava di lei, ne ammirava l’espressività, l’opera, al punto da confessarmi, un giorno, mentre passeggiavamo per Piazza Navona, la sua convinzione che Anna Maria Ortese fosse un genio. “Con tutti i difetti di un genio, - aggiunse - perché essendo un genio non appartiene a nessuna categoria particolare, non appartiene alle donne, non appartiene agli uomini; vede troppo bene le cose, e poi, anche, le sa esprimere, questa è la sua genialità. Sembra strano che un paese abbastanza fiacco, come l’Italia, produca una scrittrice come Anna Maria Ortese”. Questa dichiarazione è riportata nell’intervista che conclude il mio libro.


Chi è stato davvero Dario Bellezza a cominciare dai suoi esordi? Credi che questo paese lo abbia compreso fino in fondo? E quanto, invece, non lo sta ancora colpevolmente tralasciando e dimenticando?

Tralasciare e dimenticare i poeti è una consuetudine dei nostri tempi. Non abbiamo più bravi critici, non si studiano più le opere di grandi scrittori, mancano griglie interpretative, analisi, buoni commenti che orientino il lettore e anche lo scrittore è lasciato solo. Chi è stato Dario Bellezza, a cominciare dalla sua gioventù, lasciamo che sia lui a dirlo in una pagina autobiografica tratta dal libro Colosseo: “Come ero da giovane? Ero già postmoderno dopo le ubriacature della Neoavanguardia letteraria; straparlando di morti e rinascite. Ero postmoderno nel sesso visto come vuoto residuo di un’incarnazione passata; nel sapermi diverso-non diverso in tutte le contaminazioni degli Eros e degli Stili. Questi vecchi versi racchiudono oltre al sapore della mia trascorsa giovinezza anche un modo di concepire la poesia assoluto e intrigante, certo vicino a Rimbaud e a Dylan Thomas, a Kavafis e a Pasolini: i miei maestri del tempo. Ora metterli insieme mi sembra rendere omaggio ad un me stesso che non c’è più, oltre che ai miei maestri: mi sembra di voler adorare il passato: questo passato inimitabile che è l’infanzia di un poeta e di una poesia”.

Come hai conosciuto Dario?

Dario è stato il tramite, l’anello invisibile tra me e l’Ortese. L’ho conosciuto nell’autunno del 1988, Anna Maria Ortese aveva vinto il Premio“Elsa Morante - Isola di Arturo”, con la raccolta di racconti, In sonno e in veglia, edito da Adelphi. La premiazione si sarebbe svolta a Procida come ogni anno e questa volta, Dario, faceva parte della giuria. Decisi così di raggiungere l’isola per incontrarlo; le struggenti parole che aveva usato nell’introduzione al romanzo di Ortese, L’Iguana, mi avevano così colpito che avevo deciso di fare la tesi sulla scrittrice. Per raggiungere Procida bisognava prendere un aliscafo a Napoli, molo Beverello. Era settembre inoltrato e la giornata era particolarmente nuvolosa; nessuno squarcio che facesse sperare in una schiarita; soffiava un vento freddo e laggiù, nel mare, si vedevano le imbarcazioni oscillare paurosamente. “Il braccio di mare che ci separa dall’isola è breve – mi avevano rassicurato – si arriva in poco più di mezz’ora”. In mezzo a una folla di persone eleganti che cominciava ad affollare l’aliscafo spiccava una famiglia procidana, madre, padre e figlia, che faceva ritorno all’isola. Durante la traversata le onde presero a sollevarsi, pioveva fitto e l’aliscafo beccheggiava senza sosta; i passeggeri, sgomenti, cercando di distrarsi, erano diventati piuttosto ciarlieri. Al contrario, la famiglia di isolani che sedeva di fronte a me, coi loro volti simili a terracotta per il troppo lavoro sotto il sole, dietro un’apparente rassegnazione mi trasmettevano una placida quiete. Sbarcati sull’isola cercai la nave della Marina militare, addobbata di fiori, di festoni e luci che ospitava la cerimonia. Le ragazze dell’isola, le Grazielle, per l’occasione vestivano il costume tradizionale. Subito avevo intravisto Dario Bellezza intento a parlare con la scrittrice Lalla Romano, erano bellissimi, lui abbronzato, lei portava un ampio cappello bianco e un vestito a fiori. Mi presentai a Dario che mi lasciò il suo numero di telefono per chiamarlo a Roma. E’ cominciata così la nostra amicizia.

Il primo ricordo che ti viene in mente ripensando a Dario Bellezza? Ci racconti un pò del vostro passato di amici, delle vostre esperienze, della condivisione che ha caratterizzato la vostra amicizia. Magari un aneddoto in particolare, dal quale vengon fuori il temperamento e la generosità del poeta?

In Dario, allora, ho trovato quello di cui avevo bisogno, la poesia, il pensiero ribelle, la voce che sentivo in fondo a me stessa. Parlavamo di tutto, di politica, di arte, di scrittura, ma durante gli ultimi anni della sua malattia parlavamo molto di Dio, di spiritualità, della vita oltre la morte. Una mattina lo raggiunsi nella sua casa a Trastevere, quando lui era già molto ammalato. Lo vidi allontanarsi un momento e poi ricomparire con un libro tra le mani che appoggiò su un tavolino-scrivania. Era la sua raccolta di versi Morte segreta, con cui aveva vinto il Premio Viareggio. Non ho più dimenticato questa scena. L’immagine di lui chino sulla pagina mentre scrive qualcosa e traccia piccoli disegni. Poi la sua mano che si allunga verso di me, ”Ecco, è per te”- dice. Ero contenta per il libro e per la dedica: “Ad Adelia, perché si ricordi – aveva scritto – e sul mio nome aveva disegnato tre stelline.

Secondo te cos'ha insegnato Anna Maria Ortese al giovane poeta innamorato della bellezza?

Possiamo parlare di amore e di sostegno, più che di insegnamento, oppure di un insegnamento involontario. La vita di un poeta ha caratteri del tutto peculiari, ogni suo attimo può essere un secolo della vita degli altri. Dario nei suoi versi sente la manchevolezza irriducibile della vita stessa e questo è fonte di inquietudine. Anna sembra saperlo e quando Dario è in crisi lo ama e lo sostiene. E’ felice di essere d’aiuto all’amico fraterno tentato, in certi momenti, dalla disperazione e dall’angoscia. Quando Rainer Maria Rilke, grande maestro per Alda Merini, ci svela il primo dei grandi segreti dei poeti, il luogo in cui i poeti vivono: “I poeti dimorano in una foresta di segni”, questi segni non sono estranei alla Ortese, perché ha una lunga consuetudine con la poesia.


Tu scrivi "Anna sentiva vicino la luce fraterna delle stelle e non temeva l'Inconoscibile Spazio. Quanto era distante, la Ortese, dalla "vertigine" pascoliana che allo Spazio e al Cosmo attribuiva echi di paura." Possiamo definire tale visione una specie di misticismo laico?

Quando nel silenzio alto e fondo l’Universo risplende nelle luci serali e fraterne delle Stelle, Ortese si rasserena, ogni inquietudine e angoscia pare perdere gravità per lei. Tristi fantasie, pensieri gravi e severi svaniscono nel silenzio dell’inconoscibile Spazio. Qualche volta è finanche un’emozione troppo forte, potremmo certamente dire – mistica. Tutto comunica nel creato, l’amore, la commozione, la grazia, il canto, la paura, e ogni altra forma di dolore, di bellezza e di arte e Ortese si sentiva parte di questo dialogo.


Tu hai compiuto un atto di grande amicizia e generosità, acquistando le lettere di Dario Bellezza, in un momento difficile della vita del poeta. Oggi non assistiamo più ad atti di simile altruismo. Cosa ha perso in termini etici e morali la società letteraria in cui viviamo?

Mi auguro che ci siano sempre persone cosi generose, come Dario e Anna, la mia esperienza mi rassicura su questo. Dario aveva amici, scrittori e poeti, che volevano acquistare le lettere di Anna Maria. Avrebbe potuto ricevere una somma più consistente di quella che potei offrirgli io, allora. Sapeva dei miei studi su Anna e volle incoraggiare il mio lavoro. La società letteraria non è una comunità a parte rispetto alla società civile. Lo scrittore lotta per comprendere e per interpretare la realtà intorno a lui. Ma per comprendere oggi la realtà così com’è abbiamo bisogno di farci aiutare dalla filosofia, dalla storia, dalla poesia, dalla fotografia e la musica. Penso che vivere nel proprio tempo e riuscire a coglierlo, sentirlo, interpretarlo sia un bell’impegno. Ci sono tante domande che dobbiamo porci.


Nei tuoi due libri compi un interessante percorso di approfondimento ortesiano. Cosa ti lascia l'esperienza di averli scritti e vissuti dentro di te?

Dopo molti anni di giornalismo poter scrivere in una formula mista tra saggio e narrativa i miei primi lavori su Ortese e Bellezza è stata un’esperienza bellissima, ma anche difficile. Ho dovuto disimparare e passare da una scrittura giornalistica, ad una narrativa, fatta di metafore, immagini, emozioni. Il primo libro, Ortese segreta, edito da Minimum fax, l’ho scritto e riscritto in molte parti perché dovevo differenziare la mia voce e quella di Ortese quando racconta se stessa nelle interviste. Inoltre, non possedevo uno stile, e stentavo a credere che lo stile è la voce con cui scegliamo di raccontare. Tenere a lungo un’opera dentro di sé è forse il primo presupposto per poterla raccontare, perché pensi alla trama, immagini i personaggi, e ti pare di dialogare con essi. Avere scritto questi libri mi fa sentire soprattutto una grande gioia.


Dove sta andando la tua scrittura?

Certamente verso la narrativa. Mi piace scrivere racconti, una novella è più vicina alla poesia e il flusso narrativo di un racconto è meno costruito rispetto al romanzo. Ho finito di scrivere due racconti: Nina e Pasquale, devono uscire a settembre, sono storie vere, ricavate dai documenti del Tribunale dei Minori di Napoli. Il progetto nasce in collaborazione con l’Archivio di Stato di Napoli.


Anna Maria Ortese è anche la grande isolata, la grande diversa del Novecento letterario italiano. Ti senti affine più a questo sentimento di poetica solitudine oppure al coraggio, alla forza, alla volontà ferrea di comprensione e indagine della sua scrittura?

Sono sicuramente più vicina alla volontà di indagine della scrittura, ma anche a questo sentimento di poetica solitudine. L’esperienza con la scrittura di questi ultimi anni mi ha sostenuto nei momenti più difficili di crescita e sperimentazione che deve ancora proseguire.


Parliamo ora del rapporto intenso tra Dario Bellezza e Roma, i suoi luoghi, le sue occasioni creative. Esiste una geografia sentimentale legata al culto del poeta per la capitale? E quali gli spazi, quali le stazioni emotive attraverso cui questa geografia rivive?

Le occasioni creative di Dario appartengono ai luoghi e alle emozioni che questi gli suscitano, ma anche al suo rapporto con gli altri, ai suoi incontri. I luoghi da lui più vissuti sono Campo de' Fiori, Trastevere, Piazza San Cosimato, Piazza Santa Maria in Trastevere, Via de' Pettinari, Ponte Sisto, ma anche tante altre vie in cui lo portava la vita. Le foto che qui vedete a cura della fotografa Luigia Giovannini, ripropongono le strade, le piazze più frequentate, i portoni, i palazzi, dove Dario ha abitato.


La prossima sarà ancora un'opera di approfondimento critico, saggistico, oppure adesso hai in mente un lavoro narrativo vero e proprio? Qual è il tuo rapporto con la scrittura di fiction? A che età hai cominciato a scrivere storie?

Il prossimo libro sarà un racconto lungo ancora su Ortese per un editore romano, Lozzi, che sta lanciando una bellissima collana di narrativa che uscirà a settembre con i primi racconti dedicati ai luoghi, ai personaggi e alle case di Roma. Racconterò gli anni della Ortese a Roma, la scrittura del romanzo Il porto di Toledo, gli amici, la casa, il rapporto con gli altri scrittori della capitale.


Hai incontrato tanti giovani, presso le scuole, le associazioni, le librerie. Che rapporto si è venuto a creare tra Anna Maria Ortese e i lettori di oggi? Come si pongono nei confronti di questo gigante della letteratura?

I giovani hanno letto soprattutto Il mare non bagna Napoli , L’Iguana, Il cardillo addolorato, e Corpo Celeste, apprezzandoli molto, incuriosendosi e appassionandosi alla polemica stringente che Ortese intrattiene con il suo tempo, rispetto alla natura, agli animali, al potere. In Ortese segreta ho scelto un brano dalla sua opera che costituisce il suo Testamento, a favore dei “piccini”, della Terra, di coloro che non hanno preso contatto con il reale, gli ultimi, gli invisibili. Gli studenti sono capaci di sentire tra le righe di una scrittura fantastica e affabulatrice la struttura filosofica di Anna Maria Ortese.


Anna Maria Ortese fa riferimento a un'idea di "silenzio" fondamentale per ogni artista e ogni creatore. Che rapporto hai personalmente con tale idea e la sua imprescindibilità dal vivere di ogni giorno?

La mia natura è riflessiva, meditativa, ma è anche una natura d’azione, mi piace la politica, la storia, il cinema, la psicologia, ma il silenzio per me è fondamentale, anche affascinante, perché ci porta un altro ritmo, altri pensieri e immagini. Soprattutto ascoltiamo e portiamo alla comprensione quello che inizialmente è solo percezione. Nel silenzio ci misuriamo, pazientiamo, ci rinnoviamo.


In un celebre passaggio, la Ortese scrive: "Si distruggono le foreste, si uccidono gli animali. E' osceno dare questo dolore alla vita..." Tu riprendi questa frase in una bella intervista a Dario Bellezza che accompagna il libro. Quanto ti senti vicina a tale concetto di impegno etico del letterato e quanto credi che oggi sia ancora attuale e perseguibile?

Uno scrittore deve scrivere racconti e romanzi mirabili, l’impegno etico non si deve avvertire in un’opera e se leggiamo i romanzi di Anna Maria, infatti, non lo avvertiamo perché hanno una scrittura surreale, visionaria, metaforica con cui cattura il lettore, lo diletta e appassiona. Ortese sente questo problema perché ha anche una dimensione di impegno, di responsabilità e, come scrive Dario, è “gettata” a soffrire nel mondo con la sua anima di eterno antico, ma sa che l’impegno non deve trasparire nell’opera.


Cosa vorresti chiedere a Dario Bellezza e ad Anna Maria Ortese se avessi la possibilità di tornare a incontrarli e fare ancora una delle vostre meravigliose chiacchierate sulla scrittura?

Non riuscirei a chiedere nulla. Li abbraccerei soltanto. Un abbraccio prolungato e felice.


Luigi La Rosa



Si ringrazia Luigia Giovannini per la gentile concessione

delle sue fotografie.

In ordine di apparizione dall'alto:

- la foto numero 1 mostra Dario Bellezza insieme ad Adelia Battista;

- la foto numero 5 mostra la facciata di una delle case romane del poeta;

- la foto numero 7 mostra il portone d'ingresso della casa di via de' Pettinari;

- nell'ultima foto il poeta è in compagnia di Lalla Romano;