giovedì 4 novembre 2010

Trastevere, storie da una sponda senza tempo...



Sandra Petrignani ci accompagna

tra i vicoli di Trastevere,

raccontandoci i segreti

di un quartiere unico,

da sempre crocevia

di cultura, arte, innovazione.


Un libro indimenticabile,

che raccoglie testimonianze e aneddoti,

ricostruendo la geografia di un luogo

che ha fatto della creatività

e della libertà i suoi stessi simboli


Ci sono libri che hanno dentro il dono profondo di una suggestione. Libri che ti prendono per mano, che ti accompagnano lungo la via, svelandoti le coordinate di un percorso. Il mondo, tra le loro pagine, riemerge come tra le brume accecanti di un’emozione, con cifre primordiali, forme sensuali che tali libri hanno il potere calviniano di ridisegnare sulle orme di una speciale consapevolezza.


Fin dalle prime pagine di E in mezzo il fiume (Edizioni Contromano Laterza), l’intenso volume che Sandra Petrignani dedica al quartiere romano di Trastevere, so già di avere tra le mani un libro speciale, importante, di quelli che amerò, che custodirò tra le cose care, che mi guiderà per giorni, e notti, nei miei numerosi viaggi. Troppo grandi l’emozione, il fascino, lo stupore di ritrovare nella scrittura il perimetro di un luogo che adoro, e che appartiene ormai abbondantemente al mio quotidiano.


Voglio che il libro mi introduca alle impressioni, e che siano le parole a fare da controcanto ai passi. Me lo porto dietro in una delle mie passeggiate dentro questo novembre ancora non troppo freddo. Su di me, quest’oggi, il cielo ha la consistenza spessa di un cristallo. E’ uno di quei rari pomeriggi in cui, stranamente, tutto sembra immobile, e l’aria di un’incredibile trasparenza.


Scivolo in direzione del fiume, rasentando il suo argine enorme, basso. E’ esattamente qui che ha inizio il viaggio che l’autrice mi fa compiere all’interno delle molteplici anime di Trastevere. Un’autrice che amo, che seguo da diversi anni, e che un giorno mi aveva fatto da guida attraverso le case di alcune indimenticabili scrittrici. La scrittrice abita qui – questo il titolo del suo libro, e lo pubblicava l’editore Neri Pozza.


Qualche anno più tardi, ritrovavo le meraviglie di quelle prime pagine in Care presenze (sempre Neri Pozza), altro suo titolo di successo. Era l’epoca dell’università, dei miei primi studi letterari. Ma la passione c’era già tutta. E la gratitudine. Da allora, non ho più scordato il potere toccante di quei percorsi e della sua scrittura. Un mistero che ho ritrovato intatto pure negli altri successivi lavori, e che nel tempo s’è confuso all’affetto, all’ammirazione.


Trastavere” scrive Sandra Petrignani nell’incipit del suo ultimo libro, “è l’unico quartiere di Roma che ha un rapporto stretto col fiume. Lo si capisce solo vicendoci; perfino quando abitavo sull’altra sponda, quella di Campo de’ Fiori, il fiume non esisteva per me come non esiste per i romani in genere. E’ lontano, ininfluente, dimenticato. Ora lo so, ora che vivo nel quartiere, il fiume appartiene a Trastevere, tutt’uno con esso, tutt’uno con un’idea antica della città.”


Quando mi trasferii a Roma – saranno ormai dieci anni – nell’arrivarci dalla Sicilia, era stato proprio questo senso di antichità a colpirmi, e la sensazione che dietro la città-fondale (scenario privilegiato dei primi amori letterari della mia adolescenza: da Pasolini a Elsa Morante, da Moravia a Sandro Penna, a Ingeborg Bachmann, ad Amelia Rosselli) se ne celassero infinite altre, pronte a dischiudersi nel fasto di un miraggio, rivivendo nell’allucinata metafisica di un verso, di una foto, un sogno a occhi aperti.


Sono le stesse emozioni che ritrovo in E in mezzo il fiume, il bellissimo libro di Sandra Petrignani. Ho percorso ormai l’ampio tratto di strada che da casa mia mi porta a Ponte Sisto. Nell’ombra scura del crepuscolo, i lampioni accesi che s’inseguono sui due stretti parapetti del ponte sono pacate linee di fuoco. E’ di qua, sulla parte destra del Tevere, che si apre l’intrico dei vicoli, mentre le pagine dipanano l’algebra sognante delle citazioni e dei ricordi.


Sandra racconta della gita in barca con l’amica Adriana Polveroni, attraverso le acque del fiume che l’antico Orazio definisce “dorato”. E la rievocazione cede immediatamente alle temperature stilistiche proprie dello scrivere letterario: l’annotazione si carica d’intensità, il tratto di spessore, e la scrittura si fa meravigliosamente poetica. Come, ad esempio, dove l’autrice ci parla della vegetazione acquatica che copre le sponde fluviali: “Molti alberi sorgono dall’acqua, mentre quelli in alto fanno pendere dalla strada fronde oscillanti giù per i muraglioni: tendono all’abbraccio, cercano l’intreccio dei rami gli uni con gli altri, un incontro, come a voler inghiottire l’intervento umano che ha creato quel muro di separazione, cancellando l’affondo diretto delle case nel fiume dove adesso guardavamo passare papere e canottieri.”


Sandra Petrignani possiede la capacità degli scrittori grandi: raccontare attraverso il calore di emozioni autentiche. La sua indagine si mescola alle testimonianze di voci più o meno note, disposte a offrire il loro contributo alla messa a fuoco di una calda anagrafe del cuore. E’ così che Susanna Tamaro ci parla delle “ciriole” che il vicino di casa teneva a spurgare in vasca da bagno, prima di cucinarle. O di un tempo magico, lontanissimo, in cui il Tevere era popolato di storioni, di cefali, di spigole e anguille “ciumarole”. Se chiudo gli occhi per un momento, mi sembra di vederla davvero tanta ricchezza, mentre la folla di giovani riunita nella caratteristica piazza Trilussa – davanti all’imponente palazzo del poeta – si leva in un brusio ubriacante, che fa pensare alla febbre operosa di un alveare.


Guardo giù, proprio sull’orizzonte: l’isola tiberina appare già, come un’immensa nave, ma preferisco spostarmi verso l’interno del quartiere, assecondando il tragitto esistenziale suggeritomi dal libro. Eccomi in Santa Maria, la vasta piazza dal meraviglioso fontanone che contempla una delle più antiche basiliche cittadine. E’ qui che opera don Matteo, ed è nei dintorni che sorge l’asilo per immigrati della Comunità di Sant’Egidio. Il racconto di Sandra Petrignani apre scorci significativi di umanità e confronto, attraverso i quali balena l’anima eterogenea e altruista del quartiere.


Il libro si tramuta in un puntuale corollario di storie - storie di uomini, di donne, che continuano a combattere nonostante tutto, nonostante il dolore, l’abbandono, l’indifferenza collettiva, difendendosi da una realtà che sempre più sembra essere diventata ostile, quando non razzista e violenta. Storie di coraggio e di voglia di vivere, come quella di Roberto, cresciuto in Svizzera e rimasto per strada a causa di dolorose vicissitudini famigliari. Storie che lasciano il segno, perché scritte sulla pelle del quotidiano, e intinte nel sangue disperato dell’esistere.


Aveva paura di morire” racconta Roberto all’autrice, parlando della madre gravemente ammalata, “e io cercavo di confortarla come potevo. Cercavo una spiegazione. Ho cominciato a interrogarmi sul senso della vita: non è possibile che nasciamo solo per morire, no? E che stiamo a fare, a perdere tempo? Ma insomma, lei è morta e io mi sono trovato senza casa – era della ditta per cui lavorava – e con un po’ di soldi che m’aveva lasciato e che ho bruciato rapidamente. Ho interrotto gli studi e sono tornato in Italia, e qui me sò perso… La strada è una guerra continua, ti possono rubare tutto, tutto il poco che c’hai, da un momento all’altro. Ma volano le pizze se vengono a prendermi le cose mie. E’ come in galera: ne acchiappi uno, lo massacri di botte e gli altri non ti toccano più. Però gli anni passano e non ho più la forza di prima.


E’ intorno a questo nucleo di autenticità che si regge il percorso simbolico e iniziatico di E in mezzo il fiume, in questo bisogno di empatia, questa necessità di ricerca dell’altro, in una mappatura che attraversa strade e piazze, circumnaviga territori personali, colma una domanda invisibile che sembra giungerci dalle stesse cose, dai ricordi traboccanti della gente, dall’epidermide millenaria e ipersensibile della città.


Nessuno è escluso dall’appassionante narrazione di Sandra Petrignani: né gli scrittori che hanno fatto di Trastevere meta di veri e propri pellegrinaggi (da Moravia a Elsa Morante, da Pasolini a Dario Bellezza) né gli attori o i registi (da Lucia Poli a Carmelo Bene, Federico Fellini e Nanni Moretti), passando attraverso gli spazi che hanno rappresentato la memoria artistica di Roma (pensiamo ai teatrini-cantine molto in voga negli anni Settanta – resistono l’Argot di Maurizio Panici e lo Spazio Uno di Manuela Morosini) o i tanti locali caratteristici che sono ancora oggi al centro di un’ammirazione nostalgica: ad esempio, il famoso ristorante “Sora Lella” aperto nel 1959 da Elena Fabrizi, sorella dell’attore Aldo e attrice lei stessa, indimenticabile nel ruolo di vecchia attaccabrighe in molti dei film di Carlo Verdone.


E in mezzo il fiume è il loro libro, perché di tutti racconta, perché tutti ritrae, con passione, semplicità e senza inutili retoriche. Il sentire poetico abita questi luoghi e questi personaggi, e l’atteggiamento della scrittrice nei confronti del quartiere è insieme quello dell’abitante ma pure quello assorto e stupito della viaggiatrice al cospetto della bellezza. “Digressioni a parte, mi trovo sotto Ponte Rotto, il primo in pietra della città, o ciò che ne rimane, seduta sui larghi e bassi gradini. Mi ci sdraio quasi, per godermi lo spettacolo di questo moncone di ponte che persino Michelangelo provò senza successo a tenere in piedi. Due vecchie fotografie della serie “Com’era Roma e com’è” mi fanno prendere atto del processo di civilizzazione del paesaggio. La vecchia Isola Tiberina da questa parte presentava un lembo di terra selvatica, entrava nell’acqua con una scabra superficie di roccia e le barchette dei pescatori la circondavano sonnolente. Oggi c’è un lindo piazzale con una scalinata piatta e graziosa, uno spazio per i turisti che possono rimirare, senza graffiarsi le gambe, il troncone dell’antico Ponte Emilio: quasi tutta l’isola non fosse altro che un’arena per contemplare quel che resta del passato.”


Conoscevo bene Sandra Petrignani, avendo molto amato i suoi libri precedenti. E in mezzo il fiume aggiunge qualcosa di speciale alla sua carriera: una nota, un tocco, un affetto che va ad armonizzarsi alle sfumature di un affresco ampio, corale, emotivo, da sempre prossimo ai confini intimi del sentire e alle risonanze che le sensazioni codificano sulla pagina quando riescono a ispirare le nostre storie. E' un libro che porterò con me, e che rileggerò, più volte. Ovunque sarò, ogni volta sarà come essere tornato a casa.

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Già col suo precedente libro, La scrittrice abita qui, lei ribadiva il legame prezioso e imprescindibile tra la sua scrittura letteraria e la magia dei luoghi, luoghi che abitiamo, che pensiamo, che ci mettono in contatto con parti uniche della nostra anima e del nostro essere. Come nasce in lei questa passione per i “luoghi”?


Un mio amico, scherzando ma non troppo, mi dava dell’«animista». Forse è la mia attitudine naturale credere che anche le pietre, e gli alberi, e gli animali a maggior ragione, abbiano un’«anima». La scienza può progredire e manipolare quanto vuole la natura, ma non è ancora riuscita a spiegare il mistero in cui siamo avvolti, il rapporto fra le cose, l’invisibile che parla continuamente intorno a noi. Uno scrittore che si rispetti dovrebbe ricordarsi che nelle sue antiche origini è stato un mago, uno sciamano, uno in grado di creare relazioni fra visibile e invisibile. In molti libri ho fatto parlare gli oggetti: nel senso che li ho interrogati e ho costruito storie intorno alla loro muta presenza. Nel Catalogo dei giocattoli, per esempio, un libro del 1988, e nella Scrittrice abita qui dove la vita di alcune grandi scrittrici europee del ‘900 viene ricostruita attraverso un viaggio nelle loro case-museo, fra i mobili, i libri, i ricordi, i ninnoli che amarono.


Il suo libro E in mezzo il fiume si apre parlando del Tevere e dell’idea viva e personale che ne hanno gli abitanti di Trastevere. E’ interessante l’angolazione che ha scelto per inaugurare questa riflessione, il modo attraverso cui il fiume diventa simbolo di identità, di appartenenza, quasi di orgoglio. Potremmo definirlo, in parte, anche un ottimo pretesto letterario di partenza per raccontare altro ed estendere la passione che alimenta la sua scrittura all’intera città?


No, l’intera Roma è altro dal suo centro, o meglio i suoi centri, che hanno essi stessi diverse personalità. Volevo fare perno su Trastevere, che è veramente qualcosa di unico, un paese all’interno di una città, come non succede, mi pare, dentro nessun’altra metropoli al mondo.


Qual è il rapporto di Sandra Petrignani con Roma? Cosa ha rappresentato questa città nella sua vicenda umana e artistica?


Sono cresciuta con l’idea che Roma fosse l’ombelico del mondo, la città più importante del pianeta. Me l’aveva messo in testa mia nonna, un’umbra innamorata della capitale e che ci viveva. Io sono cresciuta fino a sei/sette anni in un piccolo centro del nord, Piacenza; quando venivo a Roma dai nonni era una festa e sognavo di trasferirmici. Cosa che è poi accaduta. Nella giovinezza, come gran parte della mia generazione post-sessantottina, passavo le serate a Trastevere, frequentavo i cinema d’essai, i teatri underground. Trastevere è presente in diversi miei libri, in particolare nell’ultimo dove è addirittura centrale. Per questo un capitolo è dedicato a “Trastevere downtown”: ho scritto E in mezzo il fiume proprio per celebrare questo aspetto artistico e bohémien del quartiere.


Il concetto di “mappa”, o di “griglia”, si addice moltissimo alla struttura del suo libro. Partiamo dai titoli dei capitoli: Sul Tevere, Rive Droite, Piccolo cuore, Rive Gauche, Rive e Derive, Trastevere Downtown e Simmetrie… Qui ogni capitolo rappresenta la discesa, l’immersione in uno spazio circoscritto, sognante, filosofico, nel quale si stratificano memoria, storia, testimonianze, affetti. Crede che questo possa diventare un metodo affabulatorio estendibile pure ad altre città?


Non ho scritto pensando di inventare un metodo applicabile anche altrove. Per me ogni libro crea la sua peculiare struttura, si cerca le parole per dire quella storia precisa. Se dovessi ripetere come uno stampino la stessa griglia per altri racconti mi annoierei. Per questo non scrivo libri di genere e non ne leggo quasi mai: la prevedibilità di una struttura narrativa mi fa perdere interesse. Vedo che i miei libri fanno scuola: quando ho scritto Ultima India nessuno scrittore italiano vivente sembrava interessato al tema. Ora non ce n’è uno, si può dire, che rinunci dopo un viaggetto organizzato (magari) a dire la sua su quell’immenso complicato paese. E così La scrittrice abita qui: molti cercano di usare il mio metodo per raccontare i luoghi dove hanno vissuto gli scrittori. Ma non basta applicare una tecnica per creare la magia.


E in mezzo il fiume è soprattutto un saggio, ma è al tempo stesso un bellissimo romanzo del respirare spazi e luoghi del sogno. Possiamo affermarlo in virtù della ricchezza, dell’emotività, della partecipazione pulsante che si percepisce in una scrittura mai fiacca, ma sempre vivace, lampeggiante, piena di luce e di intuizioni. Truman Capote sosteneva accoratamente l’abbattimento della barriera discriminante tra “saggio” e “romanzo”, e il suo “A sangue freddo” ne costituisce l’esempio più mirabile. Lei cosa pensa in proposito? Come le piace pensare al libro che ha scritto?


Mi piacciono gli scrittori sottilmente innovatori, quelli che non si ripetono, quelli arditi, indipendenti nel giudizio, che non seguono le mode, ma semmai le inventano, che ascoltano soltanto la voce interiore, quelli che scrivono per motivazioni interiori e non pensando a come andare in classifica. Ecco, se assomiglio a questo ritratto, vuol dire che non ho fallito.


Tra le pagine si fa riferimento a una dimensione autentica, genuina, che nel tempo ha sposato la presenza di intellettuali del calibro di Laura Betti, Pier Paolo Pasolini, Dario Bellezza e Carmelo Bene a quella storica di persone comuni, di semplici abitanti della zona, rendendo amabile tale convivenza, ed esemplare il rispetto e lo scambio tra le due diverse dimensioni. Oggi quest’aria si respira ancora per le strade di Trastevere?


Come dice un mio personaggio, la fornaia Stefania Innocenti, per quanti cambiamenti abbia subito, Trastevere è sempre Trastevere, un altrove caratteristico, uguale a niente altro. Tutto ciò che è oltre il Tevere è «dellà». Ma lo si può capire solo vivendoci. Chi viene nel quartiere per passare una serata, magari nella confusione estrema del sabato sera, probabilmente coglie solo l’aspetto turistico, finto e caotico della zona. A Trastevere, per apprezzarlo, devi passeggiare al mattino, frequentare i suoi baretti, in qualche caso anche un po’ malfamati, fare amicizia con i clochard, confrontarti con la realtà potente della comunità di Sant’Egidio, spostarti a piedi o in bicicletta.


E poi c’è l’isola, col suo antico sapore mitico, la chiesa e l’ospedale. Lei fa riferimento a un sentimento di “solitudine” che nell’isola si percepisce più che in altri punti della città. In un passo del libro lei scrive: “Resto sola, sola come se oltre l’Isola Tiberina non ci fosse più una città.” Quanto ritiene necessario un simile sentimento contemplativo alla sua personale vocazione alla scrittura?


Se fossi una suora, sarei senz’altro del tipo contemplativo. Sono pigra e sognante per carattere. Mia madre mi diceva spesso quando ero piccola: «Non t’incantare». Me lo diceva come rimprovero. Invece credo che in quella mia capacità d’incantarmi, che non ho mai perso, sia una parte buona di me. Io m’incanto e m’innamoro spesso: dei luoghi, delle persone, dei libri che leggo, degli animali di cui mi circondo. Mi piace molto la solitudine, se posso contrapporla alla socialità, di cui anche sento un certo bisogno. Ma più per poterla contrapporre alla solitudine che in se stessa. Mi piace poter scegliere la solitudine, insomma. L’Isola Tiberina è un buon simbolo cittadino di luogo appartato, pur stando proprio in mezzo al fiume, alla città, al passaggio da una sponda all’altra.


Personalmente, ho molto amato pure un altro suo libro, intitolato Care Presenze. Nei racconti che le pagine contenevano si percepiva l’irrompere di un mistero che diveniva l’atmosfera del libro stesso e il filo rosso che legava le storie in esso contenute. Il mistero si muta nella sua scrittura in narrazione, in suggestione, in incanto. E’ un mistero indagato attraverso le più impensabili e originali pieghe del quotidiano, un mistero che seduce il lettore. Dove e come nasceva l’idea di quella sua bellissima opera?


Anche io credo che Care presenze sia il mio libro più complesso e ardito, anche se è un po’ manchevole nella parte della «cornice» che contiene tutte le storie. Se lo riscrivessi, lavorerei a rendere più autonoma e convincente quella storia lì, mentre tutte le altre funzionano perfettamente. Nasce dalla voglia di scrivere storie di fantasmi, un po’ per gioco e un po’ sul serio. Fantasmi contemporanei, anche psicologici. Ci sono molte capriole divertenti in quel libro: capriole di struttura, di linguaggio, di punti di vista. C’è il segreto rapporto fra vivi e morti, fra diverse dimensioni dell’essere. C’è soprattutto una gran voglia di raccontare per raccontare, uno sbizzarrirsi nel raccontare. Lo definirei proprio un libro a briglia sciolta.


Il libro che lei dedica a Trastevere ritrae dall’interno la vita artistica e bohémien del quartiere, attraverso un innesto di citazioni e riferimenti, di aneddoti e ricordi individuali. Sicuramente si tratta di un’indagine ma pure di un viaggio, un meraviglioso itinerario nei luoghi e nei territori del cuore. Che emozioni le ha procurato compiere questa ricerca e ripercorrere tracce che appartengono sicuramente anche al suo passato?


Ci sono zone del nostro passato che finiscono nel dimenticatoio perché non c’è un filo di continuità col presente. Per esempio il mio assiduo frequentare i teatrini negli anni ’70 lo consideravo un po’ un capitolo chiuso che non si riverbera significativamente sul mio oggi. Rivivere quegli anni per scriverne, attraverso i racconti che mi ha fatto Lucia Poli, è stato recuperare una zona d’ombra, ricucire un pezzetto di me a tutto il resto.


I libri – quando sono ben scritti – riescono a generare miracoli e casi che hanno dell’incredibile. Tra le sue pagine si racconta di una singolare guida utilizzata da Elsa Morante in un periodo particolarmente travagliato della sua esistenza. Poi, qualche tempo addietro, è accaduto un fatto abbastanza magico: un omaggio che le giungeva per posta, e ora questa guida è tra le sue mani e conserva sulle sue pagine i segni delle stagioni come cicatrici. Mi piacerebbe che rievocasse questo interessante aneddoto per i lettori di “Verso il faro”.


Giorni fa la lettrice che mi ha fatto questo graditissimo dono si è presentata in carne e ossa a una presentazione del libro e ho potuto esprimerle direttamente la mia gratitudine. Sono alcune delle magie che producono i libri: l’autore e i lettori soddisfatti di un libro costituiscono una specie di società segreta, di clan. Ci si capisce e si condivide qualcosa di autentico. Uno scrittore sopravvive grazie a questo tipo di lettori, quelli veri, quelli che il libro non si limitano a comprarlo, ma che davvero lo leggono e lo amano. Penso che, nei casi migliori, i miei libri siano la parte più risolta di me e che quando un lettore mi dice che leggermi lo ha aiutato in qualche modo a capire qualcosa di sé o di una sua situazione, si è messo in moto uno scambio inconscio che ha a che fare con il ruolo sciamanico di chi scrive. Ci si sente, allora, strumenti di qualcosa che sfugge alla volontà, qualcosa che appartiene a quell’invisibile su cui non abbiamo potestà razionale. Ma tutto questo non ha niente a vedere con la bellezza o bruttezza di un testo, con le sue qualità letterarie che un critico ha il compito di valutare. Testi orrendi possono fare del bene, mentre opere artisticamente significative possono lasciare indifferenti i non addetti ai lavori. Sono due categorie diverse, che solo qualche volta, felicemente, s’incontrano.


Come molti artisti e intellettuali lei ha scelto Trastevere per vivere. Ma prima di arrivarci, ha pure abitato in altre zone di Roma e avrà conosciuto di sicuro dimensioni differenti. Com’è quell’altra Roma? Cosa le è rimasto di quel tempo e di quei luoghi?


Ho abitato a Monte Sacro (la vecchia «Città Giardino»), al quartiere Trieste e in quello Africano, non mi è rimasto molto di nessuno se non la distanza dal centro, dove in realtà ho sempre gravitato. Per un periodo ho vissuto a Campo de’Fiori, ma erano gli anni di piombo e non era piacevole. Durante le manifestazioni di protesta si viveva un clima da coprifuoco, chiudevano i negozi, c’era un fuggi fuggi.


C’è un personaggio – un artista, uno scrittore, un attore – qualcuno che ha maggiormente influenzato il suo rapporto con Roma?


Da Giulio Einaudi, un torinese che si trovava a suo agio a Roma, ho imparato alcuni buoni indirizzi di ristoranti: era un buongustaio dai gusti semplici e raffinati. Ma Roma per me si identificava con Alberto Moravia, almeno una certa Roma colta e borghese. Mi piaceva accompagnarlo al cinema. Anche se disturbava tutti perché, essendo un po’ sordo, continuava a chiedere: «Che ha detto? Che ha detto?» quando perdeva qualche battuta del film, la gente non protestava: era un monumento cittadino!


Qualcuno che invece avrebbe tanto voluto incontrare e che purtroppo non ha fatto in tempo a conoscere? Roma non è anche fatta di occasioni, di incroci, destini che si toccano per poi allontanarsi e perdersi per sempre?


Elsa Morante. La incontrai una volta alla Casina Valadier: era con un amico e io con Ruggero Guarini che me la presentò. Ma ero giovane e intimidita, non riuscii a dirle una parola. E gliene avrei voluto dire tante, tantissime. La adoravo.


Io ho sempre pensato che le radici non siano solo quelle legate ai luoghi in cui si verifica la nostra venuta al mondo. Ce ne sono altre, legate alle nascite interiori delle nostre vite. Radici legate ai luoghi che scopriamo, nei quali per la prima volta abbiamo capito chi siamo, cosa amiamo, cosa vogliamo essere. Qual è il suo rapporto con questo tema? Quanto lo avverte nelle storie che racconta?


Le radici sono la lingua che parliamo, anche i dialetti. Se ascolto il dialetto emiliano mi sento a casa, pur non sapendolo parlare. L’India è un paese che ha contato molto nella mia vita, ho fatto molti viaggi laggiù, ci ho scritto su un libro e posso dire di aver capito qualcosa di me stessa che non sapevo percorrendola in lungo e in largo. Ma le radici sono dove sei nato, dove sei cresciuto, le parole che hai imparato da piccolo. Quando pronunciavo mantra in sanscrito non mi risuonavano dentro come un Padrenostro…


Mi domando come sarà Trastevere domani. In futuro quali suggestioni il quartiere regalerà ancora ai suoi abitanti? E soprattutto: secondo lei quanto sarà forte e sentita l’atmosfera che ha fatto di questo luogo un rifugio di artisti e intellettuali?


Più di una persona che s’incontra nel mio libro su Roma mi ha detto: per quanti cambiamenti abbia subito, Trastevere è sempre la stessa, non cambierà mai. Lo credo anch’io.


Trastevere mi sembra anche un quartiere ricco di animali. Uccelli, gatti, cani soprattutto, che passeggiano nelle sue piazze o si rincorrono nei suoi parchi. E credo che si avverta anche una specie di rispetto, di sacralità dell’animale, che sempre più purtroppo altrove vediamo offesa o violentata. Non immagineresti mai piazza Santa Maria, o il ritrovo di San Callisto, o San Cosimato stessa, senza la compagnia poetica degli amici animali e i loro richiami. Si potrebbe partire proprio da questo punto di Roma per intensificare la sensibilizzazione delle coscienze in merito a un aspetto tanto urgente e irrinunciabile del vivere civile?


Non insegni a nessuno ad amare le bestie se non ci arriva da solo. Però uno degli aspetti che mi rende cara Trastevere è proprio la sua «densità animale».


Cara Sandra, sta già lavorando a un nuovo romanzo o a qualche altro libro? E’ possibile avere qualche anticipazione?


Ho quattro o cinque progetti cui penso in continuazione. Ma non riesco a farne prevalere uno e mettere gli altri in stand-by. Immobile per eccesso di fantasia, diciamo così.


Luigi La Rosa




la foto dell'autrice è di

Pasquale Comegna,

che si ringrazia vivamente



le immagini adoperate sono tratte

dai seguenti siti:


http://www.tesoridiroma.net/galleria/ponti_roma/foto/hpnrotto01.

http://www.google.it/imgres?imgurl=http://iguide.travel/photos/Rome/Trastevere-3.

http://www.officinadelleartiantiche.it/Immagini/foto_roma_003.