martedì 13 aprile 2010

Quei meravigliosi inganni della scrittura...


Una storia sognante
e vagamente surreale
sulle origini del cinema
e il mistero della bellezza
e dell'ingenuità.
Una vicenda dal fascino mitico
che narra le contraddizioni
dell'uomo nel tentativo
di rendersi eterno attraverso l'arte.


La quinta in cui mi trattengo con Francesco Costa per parlare del suo ultimo libro, L'imbroglio nel lenzuolo (Salani, pp. 260, 14.50 euro) è davvero singolare: un bosco fitto che si apre alle verdi dolcezze dei prati e alla freschezza di un lago poco lontano. Siamo nel cuore di Villa Pamphili. Nel cuore della storica Roma di sempre. Quella che più amo, che più sento mia. Passeggiamo in una giornata di calda quiete primaverile, col brusio della città che langue all'orizzonte come un mastodontico animale preistorico. Fai davvero fatica a credere che tutto questo duri da tremila anni. Che abbia quasi la stessa età della mitologia e degli archetipi. E' come se il tempo lo leggessi tutto all'improvviso, nel corsivo delle pietre, nella trama delle acque e della terra, e sentissi di farne parte, di esserne un piccolo centro pulsante.
Nessuno scenario si presterebbe di più alla riflessione sul libro di Francesco Costa. Pagine piene di foglie, di foreste, di erba, di laghi intorno ai quali sembrano verificarsi oscuri incantesimi e strane metamorfosi. Pagine di inganni e allucinazioni, giacché tutta l'arte è in fondo entrambe queste due cose: inganno e visione, menzogna e felicità. E lo è ancor più l'arte del cinema, che dall'immagine e dalla parola trae il suo più fervido nutrimento. La stessa che l'autore napoletano racconta con ineccepibile maestria all'inteno del romanzo, storia di una finzione creativa che, nel bene e nel male, modifica completamente la vita dei tre protagonisti.
Marianna, l'umile erbivendola analfabeta, seducente e ingenua, il cui fascino diviene oggetto di una contemplazione ossessiva e di un raggiro capace di rovinarle la reputazione. La ragazza è infatti inseguita e ripresa mentre si immerge nuda tra le acque del lago d'Averno, ritrovandosi senza neppure immaginarlo sul vasto "lenzuolo" che ogni sera segna il nascere del secolo nuovo, caratterizzato dalla più epocale delle rivoluzioni: il cinema. Per i più Marianna è il simbolo della perdizione, della scostumatezza, dell'abuso, della libidine che assoggetta il maschio a una lussuriosa dipendenza.
Federico, invece, è l'orfano di un padre fragile e innamorato, figlio dell'incauta Alma - sorta di stravagante sorella, più che vera e propria madre -, artista mosso dal sacro furore della creazione e disposto a tutto pur di realizzare La casta Susanna, il film per cui ha intravisto nella promettente Marianna una musa ideale. Federico è letteralmente rapito da tanta meraviglia, ne è attratto come la falena dal fuoco notturno della lampada. La sua corsa senza scrupoli conferma la tempra di una volontà di ferro, quella di "imbrigliare" la bellezza in ogni sua manifestazione, per eternarla sul lenzuolo tanto discusso, che giorno dopo giorno sta divenendo il fulcro della nuova passione collettiva.
Beatrice, infine, rappresenta il terzo polo magnetico di questo triangolo di efficace splendore: scrittrice di modesto talento, donna un pò snob e figura venata di ammirevoli contraddizioni, approdata al Sud dall'"altra Italia", con due bambine, alcuni eccentrici cappelli e il solo bagaglio della sua curiosità, è pure lei, a suo modo, un'artista. Pure lei insegue, oltre all'amore devastante per Federico, il sogno di scrivere Euridice, l'orfana tisica, il romanzo al quale sembra avere consegnato la speranza di una necessaria celebrità futura. Un sogno al quale affiancherà presto l'ambizione per la recitazione, il desiderio di ottenerlo lei l'ambito ruolo di Susanna.
Sono questi i tre personaggi intorno ai quali si dipana la materia avvincente de L'imbroglio nel lenzuolo, voci di una partitura musicale sapiente e misurata, che non si smorza mai dal principio alla fine, e che promette, fino all'ultima pagina, rivelazioni e manifiche sorprese. Il tutto, armonizzato da una lingua visionaria, crepitante, ricca e lievemente anticata, frutto di una ricerca scrupolosa e di un'indagine attraverso il sentire di un tempo che la letteratura alona di mito e di poesia.
Passeggiando nella meravigliosa cornice del mattino romano, Costa mi parla delle intense fasi di studio che hanno preceduto la complessa redazione del romanzo: la consultazione dei testi di botanica, la lettura dei quotidiani dell'epoca, la cattura dei termini dotti, il bisogno di dare continuità formale a una struttura tripartita che si regge su meccanismi di particolare efficacia. Una stagione creativa illuminata dall'amore per il cinema, dall'idea delle inesauribili possibilità che esso ci offre di raccontare le infinite storie di tutti.
L'imbroglio nel lenzuolo è diventato un film di Alfonso Arau, illuminato da Vittorio Storaro, e interpretato fra gli altri da Maria Grazia Cucinotta, Anne Parillaud, Primo Reggiani e Geraldine Chaplin. L'emozione della carta ha assuto respiro attraverso il colore delle immagini, l'impegno degli attori, il viaggio nei luoghi metafisici dove la storia sembra essere stata partorita. Sarebbe bello tornare proprio laggiù, davanti allo specchio d'acqua dell'Averno in cui s'immerge la povera Marianna, inconsapevole della sua rovina, laddove gli antichi ritenevano si aprissero le fauci fumiganti del Regno dei Morti. E' questa l'immagine che mi piacerebbe portare con me dopo aver chiuso il libro: questo silezio, queste ombre lunghe, sottili, che strisciano come vento e come anime. Un'impronta di qualcosa di autentico, che non si cancella e su cui la morte sembra avere perduto, incredibilmente, ogni potere.
Tre personaggi, una trama matematicamente tripartita e un ricco intreccio di voci e di rimandi psicologici. Tutto questo denota da parte sua una notevole attenzione alle strutture affabulatorie. Quanto sono importanti le questioni della forma per un narratore?
Per me sono determinanti. Prima di iniziare un libro, mi chiedo a lungo quale forma avrà. Sarà prevalentemente drammatico? Avrà una tonalità umoristica? Avrà un solo io narrante oppure, al contrario, mi costringerà a usare più di un travestimento? Che cos’è infatti l’io narrante se non un travestimento dello scrittore? Posso pensare per anni a questo problema e, finché non riesco a darmi una risposta soddisfacente, non comincio a scrivere. L’imbroglio nel lenzuolo è stato meditato per sette anni. Mi domandavo quale forma dargli: non avevo paura della lingua perché sono consapevole di avere una lingua avvolgente, una lingua che può sedurre, e di essere sempre attento al ritmo (non a caso, in fase di scrittura, leggo più volte a voce alta ogni mia pagina). Dapprima, nei miei primi romanzi, la mia lingua era torrenziale, ma si è fatta negli ultimi anni più beffarda e controllata, pur rimanendo sempre visionaria. Il vero problema era trovare una forma in cui fossero espressi, e saldati l’uno all’altro, moltissimi temi: quello dell’aspetto demoniaco della creatività artistica, innanzitutto, e poi quello delle disparità sociali nell’Italia all’indomani dell’unità, l’annoso problema della diffidenza che oppone Meridione a Settentrione, il richiamo dei miti antichi, il fascino di una natura lussureggiante, il richiamo ipnotico della passione fisica, la contrapposizione lancinante fra maschile e femminile, e dulcis in fundo una rielaborazione del tema del “doppio” che la fa da padrone in ogni mio romanzo. Avevo ricevuto ottime critiche con il mio romanzo precedente, La volpe a tre zampe, che era il primo, e non volevo fare un passo indietro, non volevo deludere i miei lettori, mi illudevo di essere seguito dai critici che avevano parlato bene di me. Pensavo ingenuamente che attendessero con curiosità la mia seconda prova. Ignoravo che i critici avrebbero gradualmente preso l’abitudine di parlare soltanto dei libri che superano un certo tetto di vendite, e generalmente per dirne male. Ho optato così per un esperimento formale di grande audacia: una storia che partisse da un presente e al presente tornasse dopo un lungo “affondo” nel passato, ma vista da tre personaggi diversi (un uomo e due donne) che si alternano con millimetrica precisione a mandare avanti la storia. Ognuno dei tre riprende il racconto esattamente dal punto in cui lo ha lasciato l’altro, e a chiarire che si tratta di un’unica partitura musicale ogni capitolo inizia con la medesima parola che ha chiuso il capitolo precedente, e per dirla meglio potrei sostenere che ognuno dei tre protagonisti inizia il proprio canto con la parola con cui si è concluso il canto del personaggio che viene prima di lui. Ho scritto per un anno intero con grande fervore, con immenso entusiasmo e grandi energie fisiche (dalla stesura di questo romanzo si è avviato un dolore reumatico alla spalla sinistra che occasionalmente torna a farsi sentire), ma anche con una concezione “matematica” del racconto. Ognuno dei tre protagonisti ha lo stesso numero di pagine e direi quasi di battute, e la mia intenzione era non solo quella di comprimere in una struttura ferrea una materia ribollente, ma anche quella di imprimervi il sigillo della perfezione. Una tale armonia numerologica richiede una lucidità estrema che temperi un estremo abbandono, e l’operazione può lasciare stremati. Ecco perché L’imbroglio nel lenzuolo è un esperimento unico nella mia produzione. Non ho mai più tentato niente di simile. Chiunque mi conosce, sa che non sono esattamente portato per la matematica. Sotto un altro punto di vista, quello della ricezione da parte degli altri, questo romanzo è il mio “figlio fortunato”. Ha vinto premi, è stato tradotto all’estero, è diventato un film. E’ per questo forse che gli ho prestato successivamente, anche nei miei pensieri, scarsa attenzione. Si è difeso da solo. Non aveva bisogno di me. Papà doveva pensare ai figli meno apprezzati.
Federico, Marianna e Beatrice… Quale dei tre personaggi è quello in cui si è maggiormente rispecchiato e che in certo qual modo la rappresenta di più?
Direi che Marianna, figura impulsiva e selvatica che mi pare di aver schizzato con un unico tratto di penna, è quella che non mi somiglia affatto. Ha percorsi mentali che non sono i miei, un carattere deciso che non è il mio, un’inclinazione ad agire che non è la mia: io sono un tipo più contemplativo. Nel disegnarne la psicologia, mi divertivo a fabbricare un temperamento plausibile, ed estremamente accattivante, che al mio fosse quasi contrapposto. Spesso la facevo reagire alle sue disgrazie esattamente nel modo opposto a quello che avrei adottato io. A Federico, che invece mi somiglia tanto, ho prestato la mia ambizione (che è sconfinata), l’amarezza di sentirsi incompreso, un rapporto insoddisfacente con la figura materna, la combattività, la fatica di convincere gli altri del proprio talento, la capacità di imprigionarli nel raggio di luce della propria immaginazione. Beatrice è il personaggio del quale vado più orgoglioso perché è il personaggio inessenziale. Se mi fosse bastato delineare una dinamica vittima-carnefice, mi sarebbero stati più che sufficienti Federico e Marianna, il regista e la sua ignara fonte d’ispirazione, ma a me interessava anche posare sulle suggestioni e sulle contraddizioni del nostro Sud uno sguardo alieno, quella di una scrittrice torinese che insegue la bellezza alla maniera di Goethe, calandosi in un Meridione che rischia di accecarla con la sua luce intensa (e temporaneamente cieca Beatrice diventerà dopo aver fumato un’erba allucinogena). Mi piaceva esplorarne gli aspetti più contraddittori: trasgressiva rispetto ai codici in ossequio ai quali è stata educata (non ha marito, ma ha due figlie avute da uomini diversi, e ha dato scandalo in gioventù), si ritrova però a considerare Napoli attraverso la lente del pregiudizio e diffida di Marianna e dei napoletani in genere. Di me ha non solo la professione (per pudore, però, ho specificato che è una scrittrice di modesto talento), ma una certa pensosità, una capacità di perdonare per amore, un sottile disincanto, e anche il coraggio di imbarcarsi in un’avventura dentro un contesto a lei del tutto ignoto (ricordo ancora lo sgomento e l’ebbrezza che avvertivo nel vagare in una Roma stupenda ma non sempre ospitale). Sono fiero di aver riscattato Beatrice dalla sua originaria “inessenzialità”, promuovendola al rango di protagonista, al pari di Marianna e Federico. Partorire queste tre figure mi ha dato al momento un’indescrivibile sensazione di benessere. Nel dipingere la scena finale, con Beatrice e Federico intrappolati su una barca, ero profondamente felice. Avevo avuto la mia visione, per usare le parole di Virginia Woolf nel finale di Al faro. E come gli altri miei romanzi, anche questo finisce sull’acqua: del mare o di un lago, poco importa, ma si concludono puntualmente tutti sull’acqua.

Nella sua scrittura il sognatore, il puro, vince sempre su una realtà che, nonostante la sua brutalità, non riesce a prevalere sulle buone intenzioni e sull'esigenza di sognare. Si tratta di un tratto specifico che appartiene anche al suo carattere e alla sua personalità?
Sono stati i sogni degli uomini, fin dall’invenzione della ruota, a far andare avanti l’evoluzione umana. Sono stati i miei sogni a farmi diventare quello che, nel bene o nel male, sono diventato. C’è sempre un grano di follia in un sognatore, ma è questo a sostanziarne l’eroismo, visto che inevitabilmente deve misurarsi con un contesto indifferente, se non addirittura ostile, però non dimentichiamo che nell’antica Grecia ai matti si riconosceva una contiguità con il divino. Ho una naturale insofferenza per la grettezza, per la piccineria, per il calcolo del “do ut des”. E mi rattrista vivere in un paese in cui si spende così poco per la cultura e si premia quasi esclusivamente chi è vittima del proprio narcisismo. Io attribuisco d’istinto le migliori qualità a una persona di cui mi colpisce l’espressione, e non sono poche le volte in cui sono rimasto deluso, ma non per questo mi piacerebbe essere diverso. Ho avuto vent’anni nei giorni mitici del Sessantotto e, fra tante storture e deviazioni, mi piace ricordare che a quei tempi si sognava di far salire “l’immaginazione al potere”. Ho sempre vissuto con quello che mi ha procurato la mia fantasia. Non conosco modo più seducente di vivere che quello di essere artista, e di fare della propria vita una creazione artistica.

Questo è uno dei pochi suoi libri in costume. Per il resto, la sua scrittura è sempre rivolta al presente e alle sue numerose contraddizioni. Quale delle due dimensioni attrae particolarmente la sua attenzione di scrittore?
Il romanzo in costume richiede ovviamente un meticoloso lavoro di documentazione. La volpe a tre zampe, ambientato nel 1956, e L’imbroglio nel lenzuolo, che si svolge nel 1905, mi sono costati mesi di scrupolose ricerche in biblioteca. Andavo tutti i giorni a leggere con attenzione vecchi giornali e a riempire corposi taccuini di appunti. Era come tornare a scuola, era un modo di ringiovanire, ed ero felice di ritrovarmi fra dozzine di studenti impegnati a stendere le loro tesi di laurea. Io non potrei mai scrivere un romanzo su un personaggio realmente esistito, e per motivi piuttosto oscuri la sola idea mi genera un vago senso di repulsione, pur essendo un accanito lettore di biografie, perché mi parrebbe di avvilire la mia creatività, di contaminare la mia scrittura con un sentore di necrofilia. Questo però non vuol dire che gli sfondi storici dei miei romanzi in costume non siano ricostruiti con maniacale precisione. Studiando con scrupolo i giornali di cento anni fa per disegnare lo sfondo di L’imbroglio nel lenzuolo, mi sembrava di disseppellire un tesoro, di far affiorare dal mare il relitto di un galeone, di contemplare un’iscrizione in una lingua ignota. I personaggi che su quello sfondo si agitano e soffrono devono però essere completamente inventati da me. E’ una condizione ineliminabile perché io mi senta vivo: non posso in alcun modo ripercorrere la vita di un personaggio storico. Mi sentirei un becchino che scoperchia una bara per frugarci dentro. Per me è vitale dar vita a uomini e a donne mai esistiti. E’ indispensabile inventare. Se non invento, appassisco. E così genero fantasmi, uomini e donne, che nelle mie intenzioni devono incantare il lettore, e le cui caratteristiche sono un impasto di lati appartenenti a me e di aspetti che vedo in altre persone. E’ un lavoro che ha a che vedere con l’illusionismo, con i giochi di prestigio, con il furto, e in definitiva con il cinema. Il cinema fa infatti ritenere vere e tangibili semplici sagome immateriali che fluttuano su uno schermo bianco. Anche la scrittura, in fondo, è un imbroglio: ti strappa alle tue abituali occupazioni per calarti in pochi minuti dentro un universo che non esiste al di fuori della nostra fantasia.

L’imbroglio nel lenzuolo è un libro complesso, dal quale lei ha tratto pure la sceneggiatura di un film. Come nasce? Possiamo considerarlo un tributo all’arte del cinema e alla sua passione per tale arte?
Benché il mio contributo alla sceneggiatura del film di Alfonso Arau sia stato indiscutibilmente determinante, e non sempre apprezzato come sarebbe stato giusto, sono citato nei titoli di testa semplicemente come “supervisore alla sceneggiatura” per una serie di incidenti che qui non è il caso di rivangare. L’idea fondamentale del romanzo nasce dalla mia passione per il cinema che mi ha salvato letteralmente la vita, perché ha colmato la mia sete di bellezza e di mistero, e di avventura e di fascino, in un’infanzia piena di domande senza risposta e di una continuamente disattesa ricerca d’amore. Nel romanzo precedente, La volpe a tre zampe, avevo esplorato l’aspetto salvifico della creazione artistica, raccontando di come il cinema rincuorava un bambino costretto a vivere in un contesto desolato e brutale, al punto da fargli credere che la moglie infedele di un ufficiale della NATO, da lui conosciuta per caso, fosse addirittura la sua attrice preferita, la rossa Susan Hayward, piovuta direttamente da Hollywood per salvarlo dalla miseria. Ancora il tema del doppio, dunque. Mi premeva, però, raccontare anche l’aspetto crudele della creatività artistica, quello che autorizza l’artista a vedere negli altri soltanto delle fonti d’ispirazione, senza curarsi della loro interiorità, e così ho raccontato gli albori della civiltà dell’immagine in cui il corpo e il volto diventano feticci che scatenano passioni morbose e impulsi fondamentalmente distruttivi: riprendendo furtivamente la nudità di Marianna che si bagna nel lago d’Averno, Federico non pensa minimamente al danno che può arrecarle (i paesani dei Campi Flegrei la metteranno al bando, ritenendola una donna di malaffare che espone il suo corpo alla libidine di migliaia di maschi), ma solo all’effetto estetico che ne può ricavare per realizzare al meglio il suo film. L’idea era quella di raccontare il ruolo strumentale che l’artista fa ricoprire ai suoi simili nel proprio processo creativo: quanti individui si sono offesi perché si sono riconosciuti nel personaggio, ritenuto non del tutto simpatico, di un romanzo o di un film! Mi viene in mente l’accorata lettera di protesta scritta a Goethe da un giovane che si era riconosciuto con sofferenza nel personaggio di Albert in I dolori del giovane Werther, e la furia con cui la scrittrice Katherine Mansfield ruppe l’amicizia con il collega David H. Lawrence perché si era rispecchiata nel personaggio (a lei odioso) di Gudrun in Women in Love. C’è qualcosa di osceno nel processo creativo, non lo si può negare, e sicuramente c’è qualcosa di vampiresco: l’artista crea sempre un doppio delle persone che lo ispirano (genitori, amici, amanti) e queste vi si riconoscono con disagio e spesso ribellandosi al proprio riflesso che vive sulla pagina scritta. Mi premeva imperniare su questo dramma (generalmente poco trattato) la storia de L’imbroglio nel lenzuolo. La realizzazione del film di Federico costerà le lacrime di due donne, sia di quella che apparirà nuda nel film (Marianna), che di quella inizialmente designata a ricoprire il ruolo della protagonista (Beatrice) e successivamente accantonata senza una spiegazione. Mi chiedo come reagirei se mi riconoscessi nel personaggio di un romanzo scritto da un mio conoscente: mi sentirei molto probabilmente oggetto di una violenza. Sono molto segreto, amo rimanere in ombra, mi sento uno dei numerosi supporting actors di una tumultuosa storia corale, e voglio essere lasciato in pace.

L’imbroglio è anche, come tutti i suoi lavori, un atto d’amore per la sua terra bella e devastata. Da scrittore ha sempre sentito l’esigenza di raccontarla, di testimoniarla, di cantarla. Ha mai descritto vicende ambientate altrove? Quanto sente questo legame con le radici necessario alla sua stessa opera creativa?
Due sono le ragioni che mi spingono a situare l’azione di tutti i miei romanzi (con la parziale eccezione de Il dovere dell’ospitalità che è per metà ambientato a Roma) nell’area geografica che va da Napoli ai Campi Flegrei: la prima risiede semplicemente nell’amore totalizzante che nutro per quelle regioni, cantate in tempi immemorabili da Omero e Virgilio, visitate ai tempi del Grand Tour da grandi intellettuali con Goethe e Madame e Staël, e oggi semidimenticate, quando non vandalizzate da gente imbarbarita, autentici subumani. Ho come la speranza di contribuire con i miei libri (ma ci sono altri scrittori, e penso in particolare a Davide Morganti, che a loro volta cantano questa meravigliosa terra in ogni loro libro) a una riscoperta di questi luoghi, in cui villeggiavano gli antichi imperatori, a una loro rivalutazione. Ultimamente, a Roma, mi è stato chiesto da una signora se luoghi come Capo Miseno o come l’isolotto di Nisida (cantato perfino da Cervantes) esistono realmente o sono frutto della mia immaginazione. Non era certa della loro esistenza. E’ una cosa che mi addolora, questa dimenticanza delle proprie radici, e che mi fa pensare a un micidiale Alzheimer collettivo. La seconda ragione che mi spinge a collocare ogni mia storia su questo sfondo geografico ha invece a che vedere con la mia superbia di artista: ritengo che se i miei romanzi (sia che si svolgano nel Settecento o agli albori del Novecento o in epoca contemporanea) hanno tutti la stessa ambientazione, intesa quasi come un fondale di cartone di quelli che si usavano anticamente in teatro o sul set dei film muti, risalterà con maggior evidenza la varietà praticamente inesauribile di tipologie umane e di intrecci narrativi che sono capace di imbastire. In me si agita una copiosa riserva di visioni, di volti, di corpi, di trame, che sarà terapeutico far affiorare alla luce, una dopo l’altra, in un lungo processo maieutico che durerà quanto la vita.

Lei ha scritto anche per il grande schermo. Poi, tuttavia, ha deciso di dedicarsi completamente alla letteratura. Cosa ricorda dei tempi in cui lavorava per il cinema? Quali ricordi le son rimasti di quei giorni?
Lavorare per il cinema mi ha lasciato un’eredità importante: la preoccupazione di curare la struttura di una storia fin nei minimi dettagli. Nel cinema non si può lasciare niente al caso, e le sceneggiature specificano perfino quanto dovrà durare ogni singola sequenza da filmare poi sul set, e l’aspetto fisico dei personaggi, e il tipo di scenografie e di costumi da utilizzare. Con queste basi è inevitabile che io sia particolarmente attento alla struttura dei miei libri. Ciò detto, la mia attività di sceneggiatore non è stata esattamente trionfale: pochi incontri interessanti, qualche collaborazione curiosa (Così fan tutte di Tinto Brass), molte delusioni. Il cinema italiano non attraversa una fase smagliante e, con poche eccezioni, è sconosciuto all’estero. I registi affermati sono pochissimi, e di questi la gran parte è egocentrica a livelli insospettabili, e chiamano a sceneggiare i propri film gli scrittori meno significativi del panorama letterario italiano. Storielle minimaliste, personaggi senza spessore, fruste macchiette ereditate dai fasti ormai remoti della commedia all’italiana. In questo contesto, passare alla scrittura di romanzi è stata per me la salvezza, è stato come varcare una porta oltre la quale c’era la possibilità di dar sfogo senza impedimenti alla mia creatività e, come per uno strano contrappasso, su sei romanzi da me pubblicati ben due sono diventati film. “La volpe a tre zampe” è stato diretto dall’esordiente Sandro Dionisio e per dirigere L’imbroglio nel lenzuolo è venuto dal lontano Messico il regista Alfonso Arau. Ho interpretato la cosa come un riconoscimento tardivo, come la conferma che almeno sul piano dell’ideazione di soggetti interessanti, potrei ancora dare qualcosa al cinema. E sogno spesso, forse per una specie di rivalsa, l’incontro magico con un regista dotato di talento al quale fornire una collaborazione che lui possa ritenere preziosa. La mia principale attività rimarrebbe però, anche in questo caso, quella di romanziere, che mi appaga completamente.

Partiamo dal titolo, L’imbroglio nel lenzuolo. Il tema dell’inganno, del raggiro ai danni di un ingenuo sognatore - personaggio che ricorre in tutti i suoi romanzi - può essere considerato quello che maggiormente attiene alla sua poetica di scrittura?
Potrei affermare che tutti i miei romanzi nascono sotto l’influsso di Nettuno, pianeta dei sogni, delle illusioni, degli incantesimi, degli inganni, dei ladri, del cinema. La vita stessa è un inganno, esattamente come il cinema, perché vuole convincerci di essere reale quando noi sappiamo fin troppo bene che è a sua volta uno spettacolo sul quale è destinato a calare il sipario. E’ incredibile la furia con cui riusciamo a innamorarci o a guerreggiare, quando in realtà non siamo altro che ombre lanciate alla rincorsa di altre ombre. E siamo maestri nell’ingannare noi stessi, nel credere all’immagine che ci piace avere di noi, nel ritenerci in diritto di soddisfare i nostri appetiti spesso a danno altrui: molti uomini sono animali da rapina, abili predatori, aride macchine da guerra. In questa situazione il sognatore è indifeso. E’ soggetto in misura rilevante a sviste e disinganni (penso all’ipersensibile Tonio Kröger uscito dalla penna di Thomas Mann), perché avverte come una necessità vitale che la realtà coincida con i propri sogni, con le proprie aspirazioni, e spera ardentemente che sia importante per gli altri come per lui l’aspetto magico della vita. Il tema dell’inganno è poi profondamente legato a quello dell’amore: nessuno può ingannarci meglio di quelli che amiamo. Una persona che non riteniamo significativa nella nostra vita non ha chiavi d’accesso per arrivare a spezzarci il cuore: un’impresa così clamorosa può portarla a termine soltanto qualcuno che, rubando la nostra attenzione, ha addormentato la nostra naturale diffidenza.

Quali sono i maestri di Francesco Costa, quegli autori che ha avuto cari nel maturare una sua personale idea di narrativa?
Mi hanno sempre affascinato i libri in cui domina, sia pur in controluce, l’idea di un viaggio, di uno spostamento, di un itinerario che non è ovviamente soltanto geografico. Penso per esempio al Satyricon di Petronio, una favola con aspetti anche foschi che narra le peripezie di tre intraprendenti giovanotti, o a L’asino d’oro di Apuleio, che racconta il percorso iniziatico di Lucio, diventato asino a causa della sua eccessiva curiosità. Penso al rasserenante Viaggio in Italia di Goethe, che amava il nostro Sud come un’opera d’arte in sé, o anche a La signora Dalloway di Virginia Woolf, in cui il semplice passeggiare per le vie di Londra della protagonista, Clarissa, ne scandisce il viaggio interiore con cui evoca gli anni giovanili e gli antichi amori. Nutro poi una passione feticistica per tutto ciò che è “nero” e narra di misteri, di enigmi, di sosia, di tenebre. E in quella dimensione mi ha dato moltissimo la lettura di Henry James (Il giro di vite, innanzitutto), Dickens, Hoffmann, Borges, Kafka, Patricia Highsmith, Raymond Chandler, Cornell Woolrich. Fra i registi cinematografici, parallelamente, stimo immensamente David Lynch, Roman Polanski, Jacques Tourneur, Edgar G. Ulmer, e naturalmente Alfred Hitchcock . Potrei vedere e rivedere per il resto della vita film come Cat People, The Big Sleep, Mulholland Drive, The Ghost Writer.

Questa uscita è una ristampa del suo secondo romanzo. Cosa vuol dire emotivamente veder rinascere un testo lontano nel tempo? E’ mutata in qualcosa la sua percezione dello stesso?
A mio avviso è un testo inattaccabile. Può piacere o meno, naturalmente, ma è solido e ricco di suggestioni. All’epoca in cui l’ho scritto (e non mi pare vero che siano passati tredici anni), pareva in linea con gran parte della produzione letteraria del momento. Oggi che il livello generale si è indubbiamente abbassato, in un mercato librario sempre più drogato e sovraffollato, mi pare che il trascorrere degli anni abbia automaticamente impreziosito l’impaginazione del racconto. Naturalmente non ha ricevuto, essendo una ristampa, neanche una recensione e il Sole 24 ore lo ha citato esclusivamente per definire “maldestra e malriuscita” la sua copertina. E’ fantastico veder rinascere un proprio libro, anche se lo si deve al fatto (puramente accidentale) che ne sia stato tratto un film. Ma questo è un tributo che si paga al trionfo dell’apparenza sulla sostanza. Sono tempi in cui l’immagine è tutto. Evanescente e intercambiabile quanto si vuole, è però davvero il perno intorno a cui gira tutto. Devo perciò essere grato all’attrice Maria Grazia Cucinotta che ha acquistato i diritti cinematografici del romanzo. Se non lo avesse fatto, il libro non sarebbe probabilmente mai stato ristampato. In Italia, sfortunatamente, si legge troppo poco. E non sempre si leggono le cose migliori. Ci sono scrittori rispettabilissimi che sono ignoti ai più, e personaggi televisivi che s’improvvisano scrittori e vendono milioni di libri.

Tutti i suoi libri raccontano storie forti, attuali, interessanti. Si definirebbe più uno scrittore o un narratore? E vede tra i due termini un discrimine importante e necessario?
Sono un narratore nato. Lo ero già da bambino. Avevo una fantasia galoppante. Inventavo storie su storie, modificavo le trame che vedevo al cinema per occultarne quelli che a me parevano i loro punti deboli. Passando alla narrativa, ho acquisito quasi per via medianica un talento che è più attinente a quello dello scrittore, dopo la rilettura notturna (la lettura precedente, diurna, non mi aveva impressionato) di un libro che mi ha letteralmente illuminato, per non dire stregato, e che è La signora Dalloway di Virginia Woolf. E’ stato uno sconvolgimento interiore che ha modificato interamente il mio modo di scrivere, soprattutto per l’adozione di un espediente assai vicino al cosiddetto “flusso di coscienza”, che mi ha permesso di ritrarre dall’interno i miei personaggi e renderli così più vivi, più palpitanti.

In cosa è cambiato, nel corso degli anni, il suo modo di rapportarsi alla scrittura e all’editoria in genere?
Essendo stato pubblicato da ben cinque case editrici di primaria importanza (Baldini & Castoldi, Mondadori, Marsilio, Rizzoli e Salani), posso serenamente affermare che di curiosità per il libro in sé ne ho vista poca. Amore per gli autori che non sono anche personaggi ce n’è ancora meno. Ogni editore sogna comprensibilmente di fare il colpaccio, di sfornare il best-seller che scalerà la classifica dei libri più venduti, ma c’è chi bara. Ci sono alcuni gruppi editoriali che fabbricano in laboratorio il cosiddetto “libro dell’anno” (scritto preferibilmente da un giovane) al quale assicurano dosi massicce di pubblicità e prestigiosi riconoscimenti letterari per venderne un milione di copie in pochi mesi. L’anno seguente ricomincia il gioco, con un altro autore “usa e getta”, ed è strabiliante che il pubblico abbocchi puntualmente all’amo senza mai ribellarsi o, tantomeno, fiutare l’imbroglio (non nel lenzuolo, stavolta). Abbocca e basta, come il nugolo di topi che seguivano il pifferaio di Hamelin. Sono sempre più rari, ormai, i libri che s’impongono con il classico, inattaccabile passaparola. In questa cornice è inevitabile passare alla svelta dai libri scritti per sé a quelli scritti per altri. Su che cosa s’intenda per libri “scritti per altri” si accendono furiosi dibattiti fra chi ha una visione “pura” della letteratura e chi ne caldeggia l’aspetto mercantile. Io guardo ai modelli anglosassoni che ritengono la ricerca di un lettore una condizione ineliminabile per uno scrittore che non voglia fare dell’onanismo. Senza un lettore, non si è scrittori. Senza una platea non si è attori. Il talento artistico è qualcosa che va verificato, che si nutre della comprensione altrui, che si tempra anche attraverso l’insuccesso, che evolve anche grazie alla duttilità dell’artista. Non credo a chi fa il monumento a se stesso e dice di trovare degradante piegarsi alle esigenze del lettore, e poi s’infuria se non vende. I classici sono nitidi, leggibili, icastici... E mai sono opera di narcisisti. Possono nascere dalle ossessioni dell’autore, ma mai dai suoi eventuali pregiudizi. Sono eterni, se qualcosa di eterno esiste.

Viste le ultime difficili stagioni editorali cosa consiglierebbe oggi a un giovane scrittore alle prime armi?
Di leggere, innanzitutto, e di leggere tanto. Di delineare il proprio albero genealogico nella storia della letteratura, e su ogni ramo porre gli scrittori con i quali si sente un’affinità particolare da cui imparare qualcosa. Di cercare, insomma, i loro antenati, quelli da cui ereditare un mondo, una tematica, un uso della lingua, da sviluppare poi in maniera personale. Molti giovani scrittori ignorano l’uso del congiuntivo, ignorano che nella vita si possono provare tanti sentimenti diversi oltre alla rabbia di un ego frustrato. Si vuole tutto e lo si vuole subito. Leggere, crescere, vivere: ecco il segreto! Non si può pensare di poter scrivere un romanzo soltanto perché si va matti per una determinata serie televisiva. E poi, al momento giusto, si scriva con onestà qualcosa che nasca da dentro, che abbia un tocco originale, che renda universale un tratto personale, che sia concepito per sedurre gli altri, per divertirli (nel senso etimologico, e cioè che li costringa a divergere dalla loro realtà quotidiana), che sia insomma un’offerta generosa, e non un delirio autistico.

Il suo romanzo è diventato un film che sta per uscire, con l’interpretazione di Maria Grazia Cucinotta, Anne Parillaud e Geraldine Chaplin, nella regia di Alfonso Arau. Che effetto le ha fatto vedere una sua storia scritta tramutata in una differente forma espressiva?
Il film è naturalmente un’opera autonoma, del tutto a se stante, e deve in qualche modo tradire il romanzo da cui è tratto se vuole davvero restituirne il senso più intimo. Io non posso esprimere giudizi sul film di Alfonso Arau perché mi sembrerebbe inelegante sia che volessi dirne bene e sia che volessi muovergli delle riserve. Dirò soltanto che gli interpreti principali ingaggiano una vera e propria gara di bravura, e che l’attrice francese Anne Parillaud mi sembra davvero una Beatrice uscita dalle pagine del libro. E’ esattamente come me l’ero immaginata, come per magia, e aggiungo che sono infantilmente contento che Geraldine Chaplin, figlia di un gigante del cinema come il leggendario Charlot (e a sua volta interprete di film diretti da maestri come Altman, Resnais, Lean, Saura, Almodovar), interpreti un personaggio concepito da me. Sono piccole soddisfazioni a margine, e la riprova che una tua idea era così feconda da rimbalzare in altre teste e innescare così la serie di processi creativi che hanno portato alla realizzazione di un film.

Lei ha vissuto un’esperienza comune a molti autori: quella di assistere alla trasformazione di un proprio testo in un film. Come ha recepito ciò e soprattutto, crede che dovrebbero esserci dei limiti allo stravolgimento che spesso il cinema effettua delle opere dell’ingegno letterario?
Umilmente ringrazio chi ha intravisto in un mio romanzo uno spunto utile a ricavarne una versione cinematografica. Il sentimento che provo è sempre di riconoscenza, anche dove non dovessi ritenere persuasivo il risultato finale. E dell’impressione che fanno su di me i film tratti dai miei libri, non farò mai parola. Detesto le cadute di stile. E sono abbastanza pigro da trovare il silenzio un modo elegante di affrontare la vita. Oltretutto non ritengo che la mia personale opinione su questo o su altri argomenti sia di stringente interesse per gli altri. Non mi vedo come il centro dell’universo.
Lei scrive anche per i bambini, e questa rappresenta in qualche misura una seconda anima della sua vocazione di narratore. Potrebbe dirci qualcosa su tale dimensione della sua scrittura e sulle sue prossime uscite?
E’ appena uscito per il Touring Club un libro per bambini intitolato Tutta colpa di un fulmine che inaugura una serie di cui è già pronto anche il secondo volume. E’ una serie imperniata su cinque bambini che, colpiti da un fulmine durante un temporale a Pozzuoli, acquisiscono un potere speciale. Potranno materializzare l’immagine di bambini vissuti in altre epoche col semplice appoggiare il palmo della mano su un antico muro già sfiorato dai loro antenati coetanei. La scrittura di questi libri è stata un esperimento interessante: li ho praticamente inventati mentre li scrivevo, in un flusso di pensieri e di immagini che si concatenavano l’una all’altra. Era come pilotare un aereo di notte: mi orientavo con piccoli accorgimenti tesi a non farmi perdere il senso di quanto scrivevo. Da una situazione ne facevo scaturire un’altra, senza mai dimenticare da dove avevo iniziato e dove intendevo andare a parare. So che Simone, il figlioletto dello scrittore Davide Morganti, ne ha letto settanta pagine in due giorni. Lo interpreto come un segnale benaugurale. Se si fa colpo sul pubblico infantile, allora vuol dire che si ha della stoffa: i bambini sono giudici severissimi e non si fanno ingannare da un bluff. Ogni volume è ambientato in una diversa città italiana, in cui vivono un’avventura particolare i cinque protagonisti, e l’intento è quello di partecipare ai piccoli lettori le bellezze delle nostre città. Ho iniziato con Pozzuoli, presente in quasi ogni mio libro, e proseguirò con Verona, Lecce, Roma, Napoli, Catania...
Qualche anticipazione sul nuovo romanzo in lavorazione?
Progetto una serie di mysteries ambientati sotto il regime fascista negli immancabili Campi Flegrei e a Napoli, e vedranno la categoria del “romanzesco” irrompere nella mia scrittura, nel senso che sto per ordire un fitto intreccio di colpi di scena talmente ai limiti del verosimile da risultare attigui al fantasy. Ecco le caratteristiche di questa serie: sfondo storico minuziosamente ricostruito, l’ossessione del “doppio”, il trionfo del concetto del sosia, affascinanti e misteriose figure femminili, atroci delitti, l’immagine di una nazione che veleggia allegramente verso la catastrofe, misoginia e omofobia, agguati e scambi di persona, gusto per l’occultismo e il presagio delle guerre coloniali. Ho già scritto il primo volume, intitolato Un pesce e tre sirene, e sono immerso nel secondo volume, Il diavolo balla il tango. Ne prevedo molti altri. Il protagonista è un uomo con tanti lati oscuri. Sosia perfetto di Rodolfo Valentino, mitico divo del cinema muto, è figlio di un suicida e di un’attrice. Può sprigionare un notevole potere di seduzione, ma non ha la testa del tutto a posto e prova anche piacere nell’uccidere. Questo è quanto. Grazie dell’attenzione.

Luigi La Rosa



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Nelle foto Francesco Costa è con Alfonso Arau,

Vittorio Storaro e Maria Grazia Cucinotta