lunedì 15 marzo 2010

Quella sposa "gentile" in cuore e in spirito



La storia di un amore avvincente
e di una scelta
autonoma

e toccante, compiuta
in nome della passione

una saga famigliare

affascinante e ricca
di chiaroscuri
sullo sfondo controverso

dei primi decenni del secolo


Sempre più il nostro difficile tempo tradisce l’arte e la letteratura. Sempre più è difficile scovare tra le novità editoriali opere felici, degne di attenzione e interesse. E sempre più fuggiamo dalla lettura per rifugiarci in altro, dimenticandoci di noi stessi e del nostro spazio interiore. Eppure, ci sono eccezioni magnifiche, isole di straordinario splendore, dov’è possibile ritrovarsi, raccapezzarsi nel vasto mar del vuoto dilagante. E quando alcune di queste eccezioni vengono alla ribalta bisogna parlarne a gran voce, dando spazio al talento, alla grazia, all’efficacia creativa.
E’ il caso del nuovo splendido romanzo di Lia Levi, La sposa gentile, che i tipi delle Edizioni E/O (sua storica casa editrice) mandano in questi giorni in libreria, opera balzata in poche settimane tra gli indici delle classifiche dei più venduti.
Mi avvicino al libro di Lia Levi con la stessa curiosità suscitata in me da ogni sua nuova uscita: ho sempre apprezzato moltissimo questa scrittura piana, accarezzata da una solare ironia, attenta al particolare dei sentimenti e agli abissi dell’animo umano, ricca di colore metaforico senza tuttavia scadere in alcun punto nell’abuso della retorica e nel compiacimento dello stile. Una scrittura che rifugge dalle forzature, che nomina le cose col proprio nome - esatta, minuziosa, misurata, leggera secondo l’imprescindibile canone tanto caro ad Italo Calvino.
Fantastica l’epigrafe di Federico Garcìa Lorca in apertura, di quelle che non si dimenticano: “Per il tuo amore mi duole l’aria / il cuore / e il cappello”. Un proclama di dedizione che si stende come un’aura sul magnifico esordio del romanzo: “Quando l’anno 1900 arrivò trionfalmente a inaugurare il nuovo secolo fra luminarie e simboliche danze, Amos Segre si trovò a fare una solenne promessa a se stesso. Al compimento dei trent’anni, non un minuto dopo, avrebbe dovuto assolutamente vedere già realizzati due sogni fondamentali. Primo, una ricchezza solida e riconoscibile. Secondo, una moglie con cui dividere una dimora degna di tanta conquista.
Proponimento in qualche misura epico, emblematico, che ci trascina già tenacemente dentro le pulsazioni emotive del racconto. La vicenda che Lia Levi ritrae con l’allegro brio di un minuetto mozartiano è profondamente legata alla volontà risoluta di questo giovane uomo, alla sua forza di resistere agli eventi avversi, agli urti capricciosi della fortuna, alle incomprensioni famigliari, alle imposizioni sottintese della comunità. Un giovane mosso da sogni necessari: la costruzione di una famiglia e l'esigenza assoluta di affermarsi davanti agli occhi del contesto di provenienza.
Tuttavia questo desiderio inoppugnabile sembra minacciato dalla medesima particolarità della sua scelta: Teresa, la ragazza di cui s’innamora, è contadina e “gentile”, tanto nei modi del cuore quanto rispetto alla religione ebraica del futuro marito. Amos si tramuta pertanto in puro sguardo, uno sguardo che cesella, che cerca la luce dorata dei dettagli, perché Teresa è bella, sicura di sé, e ferma quanto una rivelazione, un’epifania per gli occhi innamorati: “Prigionieri, prigionieri sono quei capelli che le forcine tengono così forzati… Le forcine sono le guardie di un paese nemico. Bisogna fare la guerra contro di loro. E’ lui è arrivato lì per questo, è solo questo il suo compito di cavaliere armato.”
Bisogna addentrarsi nel paese di lei, delle sue forme. Nel paese della sua anima misteriosa. Amos è sicuro di riuscirci. Amos vive per questo. Sebbene, l’amore per la florida contadina lo esilierà quasi certamente dalla sua famiglia e dalla stessa comunità nella quale è cresciuto e s'è fatto uomo. La sposa gentile si offre al lettore come una sinfonia gradevolissima degli affetti, una partitura piena di colpi di scena e di aneddoti vitali, che impenna sotto il fluire degli eventi, ma che accompagna con pacata scioltezza il lento, ammirevole evolversi del controverso amore della coppia. Il suo fuggire dai luoghi comuni delle convenzioni. Il sacrificio in nome dell’altro. La fatica di riedificare, passo passo, in una solitudine scelta, un’immagine di sé agli occhi perfidi del mondo.
Teresa comprende una verità fondamentale: che l’amore richiede delle scelte. E’ questa la sua toccante formazione alla maturità, questo apprendere le regole non scritte della vita e decidere di aderirvi in maniera responsabile, etica, consapevole. Per amore di Amos Teresa ritesse intorno a sé le algebre filiformi di un universo che non le appartiene, e che in parte ha sentito ostile. Accetta che i figli nati dall’unione col Segre portino il sigillo dell’antica religione ebraica. Accetta di adeguarsi a rituali estranei, che ridefiniscano tuttavia una presenza e un’identità all’interno dell’essere comunitario. Accetta che Amos senta di riconquistare il posto che gli spettava di diritto nell’ambito della sua famiglia, all’interno dello stesso contesto che sul principio l’aveva emarginato.
La narrazione si tramuta presto in una meravigliosa saga familiare, all’interno della quale uomini e donne si muovono alla ricerca di qualcosa: chi di un posto, di un riconoscimento, chi di un valore seppure effimero da salvaguardare al correre dei tempi. Lia Levi asseconda l’avanzare degli anni con magistrale perspicacia descrittiva: tra le pagine cresciamo insieme ai suoi personaggi, ci moltiplichiamo dietro le loro ombre, partecipiamo delle delusioni e delle rivalse che la fortuna di tanto in tanto dissemina sul laborioso cammino degli umani.
Sulla coralità sfumata dei tanti personaggi emerge, a tratti nitidi e vincenti, la figura di Teresa, vera grande protagonista del romanzo. L’impronta nella quale il suo perimetro è scolpito è forte, matura, responsabile: Teresa è una donna che sa scegliere, che sa portare fino in fondo le conseguenze del proprio coraggio, che non si piega davanti a niente e a nessuno, tranne che agli impeti della passione che ha animato e anima ancora la sua esistenza. E’ una creatura ricca di una sua intima luminosità, dotata di una fibra vincente, moderna sotto tutti i punti di vista. Impossibile non innamorarsene, come non aderire alla sua voglia di libertà, al suo bisogno di indipendenza e di riscatto.
La sposa gentile si legge in un soffio, e fugge via con la celerità degli attimi che tra le pagine si consumano in una danza inesorabile e vorticosa. Tutto fugge via per sempre: la vita dei personaggi, i loro amori, le loro storie, le loro inquietudini. Fuggono i tempi, le stagioni, la giovinezza e fugge il secolo passato, lasciando ricadere sul nuovo ipotesi e tradimenti. Ma fugge soprattutto la serenità che per un certo tempo sembrava aleggiare sui destini rappresentati, mentre si affaccia sull’orizzonte la nuvola nera di un’epoca di profonda afflizione: il racconto si chiude infatti sul 1938, anno delle Leggi Razziali, che la scrittrice rievoca per pennellati veloci, lasciandoci la sensazione di un’ulteriore apertura.
Incontro Lia Levi in un fredda mattina trasteverina. Sediamo a chiacchierare nel brusio già primaverile di un giorno di sole miracolosamente strappato a questo fitto inverno. I gabbiani stridono tra le fessure dei tetti. C'è la bella luce di Roma, intorno. Nelle parole dell’autrice mi sembra di percepire la stessa vibrante emozione dei suoi personaggi, di Amos, padre e marito amorevole, di Teresa, donna forte e innamorata, e di un mondo famigliare pieno di risonanze e di contraddizioni che costruisce e devasta se stesso, giorno per giorno, pagina dopo pagina, assumendo la forza di un vero e proprio affresco emotivo e sentimentale.

La sposa gentile manifesta elementi stilistici e linguistici di grande forza innovativa: le coordinate del racconto corale, la scelta di una scrittura veloce, piena di ritmo e di tensione, la capacità di raccontare un'epoca con accurato nitore evocativo... Possiamo ipotizzare che questo costituisca una qualche svolta nella sua carriera e all’interno della sua scrittura?
E’ vero che La Sposa Gentile è un romanzo corale, c’è un contesto storico e sociale a fare da sfondo, la narrazione è in terza persona e in più, al contrario di quanto comunemente avviene nella letteratura contemporanea, la vicenda non è angolata dal “punto di vista” di un solo personaggio centrale. I “punti di vista” sono due e forse anche di più. Tutto questo già rende diverso questo libro rispetto ai miei precedenti, e quindi lo stile va di conseguenza. Il problema ora è: il cambiamento di stile è solo un adeguamento reso necessario dalla diversa struttura o la nuova struttura ha dato il via a una svolta, a una rinnovata forma espressiva? Tutto sommato darei una risposta salomonica. Sì, la narrazione oggettiva e più classica ha richiesto degli aggiustamenti dello stile, tenendo per esempio sempre presente il pericolo dell’appesantimento (da qui il ricorso per compensazione a un tono veloce e leggero). Però riflettendoci i miei ingredienti sono sempre gli stessi: l’ironia, la metafora (la mia passione), una certa indulgenza verso le debolezze umane. Tutto sommato posso dire che non c’è stata nessuna vera svolta, ma solo un diverso modo di usare il mio stile che magari, con un’altra futura e diversa trama, potrà ancora prendere altre forme.

La dimensione della vita comunitaria è qui del tutto centrale, imprescindibile. Ci sono riferimenti autobiografici o rimandi alla storia di una famiglia realmente conosciuta, anche se non necessariamente la sua?
Sì, è vero. La mia è una storia saldamente ancorata alla vita di una famiglia e a quella di un gruppo ebraico di una piccola città piemontese. Bisogna però tenere conto che l’intera vicenda si svolge nei primi decenni del Novecento, quando cioè questi punti di riferimento erano assai più saldi di quanto siano adesso. E lo dico senza naturalmente formulare alcun giudizio di valore. Era meglio? Era peggio? Chissà. Il riferimento a una storia personale di famiglia c’è di sicuro e costituisce proprio lo spunto del libro. Ma come dice un romanziere francese “il romanzo è una storia vera raccontata da un bugiardo”. E così io penso di avere reinventato a modo mio la tormentata vicenda amorosa che ha legato mio nonno (che nel romanzo viene chiamato Amos) e mia nonna (Teresa, nel romanzo e nella realtà).

La vicenda di Amos e Teresa sposa tra le sue pagine quella di un'Italia nuova, rappresentata dall’energico fermento del secolo nascente, e sancita in apertura di romanzo dalle celebrazioni che a tal proposito vengono organizzate per festeggiarlo. Come vivono i personaggi gli effetti che la grande Storia riverbera sulla vita di tutti?
Il primo giorno del ‘900 era stato salutato da un balletto, il famoso Excelsior. In quel momento si erano accese grandi speranze. Con le nuove entusiasmanti scoperte e invenzioni la Civiltà con la “C” maiuscola sembrava dover progredire a ritmo accelerato. Era questo, che in mezzo alle luci e ai fuochi d’artificio prima a Parigi e poi in tutta Europa, voleva raccontare il balletto Excelsior. I personaggi del mio libro, e segnatamente Amos, il co-protagonista principale, sembrano fermamente convinti che il nuovo secolo avrebbe portato pace e benessere e in questa convinzione si muovono e agiscono, anche all’insegna – per Amos e Teresa – dell’Omnia Vincit Amor, come allora si usava dire. Per gli ebrei di quel tempo c’era poi una valenza in più perché le porte dei ghetti si erano aperte da non molti anni, appena una generazione. I protagonisti del libro erano consapevoli di quello che gli avrebbe riservato dopo la Storia? No, nessuno era in grado comprendere, forse perché dopo tutto la Storia non ha leggi ma solo casualità, e il Fato non ha mai dischiuso la porta dei suoi segreti.

Quella di Teresa è essenzialmente la storia di un’accettazione. La sua scelta di adeguarsi alla religione del marito e vivere i rituali di appartenenza religiosa dell’uomo è davvero commovente. Tuttavia Teresa non si annulla mai per accondiscendere ai valori dell’altro, ma rimane se stessa, meravigliosamente autentica, forte fino alla fine. Ci chiediamo se il romanzo possa essere letto sotto la duplice ottica del "sacrificio d'amore" e della "ribellione"?
Una accettazione, sì, ma davvero “accettata”, nel senso letterale del termine, mai imposta o subìta. Un accoglimento sereno e consapevole, finalizzato a che “lui sia contento”, come viene più volte sottolineato nel libro. Non una forma di sottomissione, come invece capitava molte volte in quegli anni. Qui è la donna, Teresa, che decide e sceglie, in nome sì di una passione d’amore, ma sempre vissuta all’insegna del vento della libertà. La sposa gentile è una storia d’amore come io volevo che fosse, ma nelle pieghe nascoste anche una manifestazione d’indipendenza, di autonomia. Una indipendenza sui generis forse in anticipo sui tempi, anche se va ricordato che dietro le quinte già si agitavano i primi fermenti del femminismo. Non c’è dunque qui “sacrificio d’amore”, e chi legge avrà modo di accorgersi (forse questo non era neanche nelle mie intenzioni) che è Teresa la figura femminile che via via diventa “dominante”, nel senso di “prima attrice”. “Prima attrice” in più di un senso, come figura centrale ma anche come figura forte e indomita.

Teresa proviene da una famiglia contadina, mentre Amos è di estrazione borghese. Il tema delle differenze religiose che alimentano le pagine del romanzo può pure essere interpretato sulla scorta di una conflittualità legata anche alla dimensione sociale della storia?
Certamente La sposa gentile ha una dimensione sociale importante. E’ la differenza di condizione sociale tra Amos e Teresa che, insieme a quella religiosa, crea il vuoto intorno alla coppia. I signori marchesi del libro possono passare sopra la condizione ebraica di Amos, ma mai avrebbero potuto fare lo stesso con la loro diversità sociale. (Per fortuna Teresa è apparsa solo come sposa di Amos, e del suo passato non sanno niente). Le convenzioni sociali del libro non sono le stesse di oggi, e oggi non saranno più quelle di domani, ma sempre di convenzioni si tratta: mascherate, ammantate di buonismo e di finta democrazia, quelle odierne (avete letto il libro “La casta”?). Le “diversità” non avranno mai fine, solo cambieranno di volta in volta configurazione.

Come vede Lia Levi i suoi personaggi? Sono degli eroi, delle persone coraggiose, eccezionali, o semplicemente dei forti, che vanno avanti nonostante il biasimo collettivo, lavorando duramente per costruire se stessi e la propria realtà famigliare?
I due protagonisti hanno semplicemente la “schiena diritta”- Amos non è un superuomo, è un uomo, quello che in yiddish si dice “Mensch” (significa un po’ il vir latino), e Teresa è in un certo senso una donna che anticipa il futuro femminile autentico, più nella sostanza che nella formulazione astratta.

Rispetto ai romanzi precedenti e all’essenzialità del loro linguaggio, avvertiamo ora una maggiore ampiezza della tavolozza linguistica. La lingua asseconda i moti del cuore e ne insegue le ferite, scendeno fin dentro le carni dei personaggi con impareggiabile maestria. Anche le metafore sono di particolare efficacia. Quanta fatica ha richiesto una simile scelta, e da quali esigenze di fondo è stata dettata?
Come ho detto al principio, cercando di guardarmi dal di fuori mi rendo conto anch’io di avere scelto per La sposa gentile una strada narrativa diversa, un modo di riallacciarmi in certo modo al romanzo “classico” dell’Ottocento in chiave però, spero, moderna. Era il tipo di storia che lo richiedeva. Non so se il risultato mi darà ragione, non spetta a me dirlo, ma la mia è stata una scelta consapevole. La “fatica” invece è stata quella di sempre. E siccome il piacere di scrivere è di molto superiore alla sofferenza del non scrivere, il termine “fatica” viene subito cancellato o semplicemente sommerso da quello di “gioia”. “Maestria, efficacia”? sono grata all’intervistatore per un giudizio tanto lusinghiero… Non sta certo a me confermarlo, e non sono tuttavia così masochista da respingerlo… anzi… Posso solo dire che ho fatto il mio lavoro di artigiana, perché tale mi ritengo, e la mia esigenza assoluta nello scrivere è quella di mettermi al tavolino e, come dico spesso (speriamo che non si tratti di ripetitività legata all’età) cerco di andare più vicino possibile a quello che vorrei dire. Nel caso de La sposa gentile c’era in più, un antico bisogno di rapportarmi al mondo dei miei nonni e bisnonni e alla loro terra piemontese, conquistata nei secoli con grandi sofferenze e fatiche, da cui malgrado la mia “romanità” acquisita, anche io ho preso origine.

Nel titolo l’aggettivo "gentile" fa riferimento sia all’appartenenza religiosa di Teresa, sia alla sua nobiltà d’animo. Nella sua visione personale delle cose e dei sentimenti cos'è la gentilezza? E’ una dote naturale, genetica, oppure acquisita, forgiata dai duri casi del vivere?
“Gentile” tra gli ebrei sta per “non-ebreo/a”, ed è un termine che deriva da gens, cioè la “gente”, quella che è altra da noi. Ma “gentile” è naturalmente la parola usata nel suo senso corrente ed è una qualità dell’animo a me particolarmente cara, perché intende una tranquilla quantità di valori ed esclude esagerazioni, eccessi ed esasperazioni, è quello di cui vorrei fosse pieno il mondo.

Come si coniuga tale gentilezza con la scelta finale della protagonista di tornare ai propri valori cristiani, imponendosi in qualche modo pure al volere dei figli?
Teresa non torna ai valori cristiani almeno quanto non era mai del tutto entrata in quelli ebraici. Ha assunto e fatte sue le tradizioni ebraiche non solo perché lui “fosse contento”, certo c’era anche questo, ma per omologarsi al complicato e sofferto mondo del suo uomo, in modo a poterlo amare nella sua interezza e fargli veder crescere una famiglia “ebraica” come lui la desiderava. La sua introiezione dell’ebraismo avviene “laicamente” e non prevede alcuna fede religiosa, così come la riacquisizione di una immagine della Madonna non ha per Teresa significato teologico né ritorno a una fede che non è stata mai davvero profondamente sua. E’ solo un fatto affettivo che la riporta alla sua infanzia. Non c’è dunque tradimento dove non c’è mai stato “arruolamento” o “adesione”.

Il romanzo si snoda fino al 1938, fino all’emanazione delle leggi razziali fasciste. Il finale del romanzo è struggente, giacché s’intuisce la china che prenderanno gli eventi e si soffre insieme ai personaggi della vicenda. Questa atmosfera di pre-Apocalisse mi ha fatto pensare in qualche modo a uno scrittore di eccezionale pregio letterario: Aharon Appelfield. Sono possibili riferimenti tra la sua scrittura e quella dell’altro maestro?
L’accostamento ad Appelfield mi lusinga e mi riempie di gioia. Ritengo Appelfeld uno dei Grandi, un ispiratore di profonde emozioni. Però non penso che la mia scrittura possa in qualche modo riferirsi alla sua. Credo, certo, che ogni narratore succhi il distillato dei grandi scrittori a cui si è abbeverato e se ne nutra, ma quasi mai nel senso letterale tipo “andare sulle orme di”. Si tratta solo di assorbirne l’emozione per una “messa in moto”, forse la stessa che ti può dare a volte una sinfonia musicale. E’ possibile accostarsi all’immenso Tolstoj o a Shakespeare senza restarne “plagiati” nel profondo? Ecco perché per quanto mi riguarda, mentre sento come miei i grandi della letteratura, sono consapevole del fatto che la loro scrittura non sarà la mia. A volte però devo dire che mi sembra di riconoscermi in qualche autore che mi piace molto, ma forse non me ne rendo conto. Altre volte capita che qualcuno mi dica “Sai, mi sembra che tu scriva un po’ nello stile di X o di Y”. Sarà vero? Sarà casuale? Chissà.

Quali sono stati i suoi riferimenti letterari? Ci sono autori ai quali in qualche modo si è sentita vicina nel meditare il libro?
E’ un po’quello che dicevo prima. Ci sono ovviamente i Maestri, i grandi russi, francesi dell’Ottocento. Ci sono gli scrittori di alto livello anche del Novecento, compresi inglesi e americani. Da tutti (da tutti quelli che ho letto, è chiaro) ho attinto e messo del materiale emotivo nel mio bagaglio, così come i ragazzi possono attingere da quello che hanno imparato a scuola, a partire dal semplice alfabeto fino a Dante e oltre. Non è quindi per darmi un tono che dico che no, non mi pare di avere direttamente travasato nei miei libri qualche lezione appresa sui banchi delle mie letture (tranne, lo confesso, qualcosa della Mansfield). Ma se qualcuno farà degli accostamenti o altro, sarò ben felice di ascoltarlo. Non mi offenderò davvero, anzi.

Il suo è un romanzo coraggioso, che per taluni versi non teme la reazione del lettore, e procede verso il suo obiettivo narrativo. Tuttavia, è in qualche modo pure un romanzo di denuncia, che mette a nudo contraddizioni e chiusure, che condanna le intolleranze di molti. Ci sono state delle reazioni particolari alla sua uscita?
La sposa gentile è uscito solo a metà febbraio. Le prime recensioni sono state soddisfacenti, a volte molto soddisfacenti. Le reazioni dei primi lettori che mi hanno telefonato o mandato e-mail sono state positive e molto calorose, ma non credo che possano fare statistica, perché se a qualcuno il libro non è piaciuto non gli sarebbe venuto in mente di scrivermelo o dirmelo. Credo che occorra aspettare un altro po’.

La sposa gentile è uno di quei libri che rimangono, per la sua bellezza, la sua incisività, la sua coerenza intellettuale. Anche nei suoi romanzi precedenti lei ha sempre manifestato una grandissima onestà intellettuale, ritagliandosi margini di libertà assoluta e totale indipendenza di pensiero. Il suo è un libro che rifiuta categoricamente tutte le forme di ideologia, per puntare alle particolarità e alle specificità dei singoli casi individuali. Quanto ritiene che questo sia importante per uno scrittore e per un artista in genere?
Ha colto nel centro del bersaglio quando dice che il romanzo rifiuta ogni ideologia, perché in realtà sono io che aborro tutte le ideologie, che per la loro struttura sono intolleranti. Penso che chi crede di essere il depositario della Verità, sia politica o religiosa, tende a essere intollerante nei confronti di quanti non credono e cerca d’imporre quella che ritiene essere la verità assoluta e per lui unica e salvifica. Sì, penso che lo scrittore debba essere al di sopra di ogni assoluto. Lo scrittore deve raccontare, non giudicare. La scrittura è porsi dei problemi, è ricerca, mobilita spesso anche contraddizioni.

E’ rientrata di recente da un giro negli Stati Uniti, dove alcuni suoi testi sono stati tradotti. Che cosa ci può raccontare di quell’esperienza?
Negli Stati Uniti, a Washington e New York dove era appena uscita la traduzione in americano de L’Albergo della Magnolia (The Jewish Husband) ho avuto l’impressione di andare a vendere frigoriferi al Polo Nord. Quanti libri si pubblicano (e si leggono)! Ho però saputo, proprio in questi giorni e con sorpresa, che il libro ha cominciato piuttosto bene, con un numero di copie vendute che qui in Italia consideriamo già un optimum. Ero già stata alcune volte negli Stati Uniti, ma New York l’ho rivista con lo stesso entusiasmo della prima volta (e con l’euro più forte del dollaro… un invito agli acquisti che però non ho fatto).

Oltre alla scrittura per adulti, Lia Levi è nota per una vastissima e apprezzata produzione di testi per l’infanzia. Il mondo della scuola la considera giustamente un riferimento prezioso. Cosa rappresenta quel tipo di scrittura e quanto è stato utile nella sua esperienza di narratrice?
Amo moltissimo scrivere per bambini e ragazzi e mi piace incontrarli dopo che hanno letto i miei libri. Devo dire che da loro ho ricevuto ondate d’affetto originali e commoventi: questo è il premio di una certa fatica. E poi l’approccio è diverso. Se presenti il tuo libro agli adulti, magari tre o quattro volte in città e in ambienti diversi, appunto perché lo presenti come novità, chi viene a sentirmi quasi sempre non l’ha ancora letto. Invece con i bambini e i ragazzi non è così. I ragazzi vengono da te dopo che hanno letto e magari già discusso il tuo libro. Sei perciò per loro una persona in qualche modo famigliare. Perciò si sentono liberi di chiederti tante cose sul libro, sulla mia persona e sulla mia vita. A volte vorrebbero, che so, un finale diverso e me lo propongono, oppure mi chiedono “e dopo?”. Succede così forse perché quando scrivo per loro io “sono” una di loro, sono una bambina con le bambine, una ragazza con le ragazze. Insomma, sono quasi miei compagni di banco e fra compagni di banco succede che ci si voglia bene.

Ha già in mente un nuovo romanzo? Se sì, è possibile anticipare qualcosa ai nostri lettori?
E’ troppo presto. La sposa gentile è appena uscito e mi parrebbe di tradire i miei personaggi se cominciassi ora a costruirne altri. Ai propri personaggi ci si affeziona come se fossero veri e non si possono lasciar cadere di colpo. Bisogna far decantare la storia in cui sei stato immerso tanti mesi. Penso che sia così per tutti gli scrittori (sia che amino o che odino le loro creature di carta).

Si prepara un nuovo viaggio in Sicilia, terra che lei ama particolarmente e alla quale si sente legata da amicizie e affetti personali. Che effetto le fa tornarvi?
Sì, è vero, io vengo spesso in Sicilia e provo per questa terra qualcosa di più di un amore: mi pare che ci sia tra me e la Sicilia qualcosa come un legame segreto, quasi mi avesse partorito quest’isola. Eppure i miei antenati, arrivati in Italia ai primi del Cinquecento, provengono dalla Spagna, non dalla Sicilia, almeno così mi risulta. So bene che in Sicilia la presenza ebraica prima dell’espulsione dai domini spagnoli era di notevolissima entità, qualitativa e quantitativa. Penso, e molti siciliani lo credono, che moltissimi di loro abbiano qualche goccia di sangue ebraico nelle vene… forse mi sento tra parenti, chissà…

Luigi La Rosa
Le immagini sono tratte dai seguenti indirizzi:
foto dell'autrice:
i tre dipinti di Marc Chagall: