martedì 14 settembre 2010

taccuino parigino (prima giornata)


divagazioni di percorso
di un viaggio a Parigi
tra suggestioni e fantasmi
sulla scorta dei suoi artisti
e del suo invidiabile passato
...


sotto il cielo grigio di Montparnasse

inseguendo le leggendarie tracce di Kiki,

di Hemingway e di Modigliani
all'ombra di caffè e atelier

e tra le tombe di uno dei

più celebri cimiteri d'Europa...


Approdare a Parigi sbucando da una delle tante fermate della metro è un'esperienza irripetibile.
Un'uscita dalle acque buie dell'attesa, un germogliare nello splendore un pò grigio del mattino. E' così che con Alessio scegliamo di arrivarci, l'ultimo lunedì di un agosto che mi porto ancora scritto sulla pelle. Montparnasse, il mitico monte delle Muse. Lo scelgo tra tutti i quartieri cittadini con la volontà precisa d'inseguire vecchi fantasmi, spettri meravigliosi di cui mi sono lungamente nutrito, e che continuano ad aleggiarmi intorno. Hemingway, Modigliani, Colette. Sono solo alcuni di essi, e mi pare d'intravederli già nei tagli di luce che piovono giù nervosi dagli ippocastani lungo i boulevard. Per ciascuno ci saranno lunghe giornate, e passeggiate nel vento freddo dell'autunno che incombe. E' qui che hanno vissuto, qui che hanno amato e si sono persi. Mi sembra quasi incredibile, tanta è l'emozione. Provo un brivido indefinibile al pensiero di calpestare le stesse foglie, gli stessi marciapiedi, di navigare tra gli stessi alberi secolari che disegnano l'oscura mattinata. Eccomi, penso. Sono qui, per aspettarvi. Vi seguo senza parlare.

Il primo monumento affettivo dei ricordi va alla celebre Rotonde. I prezzi, l'aggressione turistica, la frenesia affaristica del nostro tempo mi mettono un pò in guardia: non è più il luogo che cercavo, ma gli incanti dell'immaginazione ci sono tutti: basta chiudere gli occhi per ritrovarli, intatti, come in una vecchia posa d'epoca. Soutine, Max Jacob, Apollinaire, Trockij, Lenin, Victor Lisbion - celebre patrono del locale che concorse a lanciare la moda del bistrot - e ancora Kisling, Foujita, Cocteau, Pierre Benoît, Kiki, Modigliani e Utrillo. A nemmeno cinquanta metri di distanza, spiccano i colori elettrici di altri ritrovi che fecero storia: la Sélect, la Dôme, e il celebre ristorante la Cupole, su strade che convergono tutte sull'affollato crocevia.

E' difficile strapparsi al trambusto dei passanti, del chiasso automobilistico, delle folle di turisti che sciamano da un punto all'altro della zona, ma è necessario, per vedere con occhi nuovi, e assorbire energie e stimoli che Parigi sembra ancora nascondere sotto le apparenze della sua epidermide secolare. In questa nuova visione, sono le parole di Corrado Augias, tra le pagine del suo ricco e puntale I segreti di Parigi (Mondadori), a rivelarmi il fondale effettivo dentro cui s'annidano ricordi e testimonianze.

«In Rue Campagne-Première, poco più a sud, si può ancora vedere un edificio del 1911 nel quale molti pittori ebbero i loro studi: ampie finestre per la luce e soprattutto, cosa davvero insolita per l'epoca, riscaldamento centrale, telefono, elettricità. La modernità degli impianti ne fece un immobile prestigioso e alla moda. Quasi adiacente a esso c'è l'hotel Istria - corridoi stretti, stanze piccole, modesto fino alla malinconia - in cui alloggiarono fra gli altri Kisling, Picabia, Rilke, Tzara, Satie, De Chirico, una colonia di pittori e poeti tenuti insieme dal desiderio comune di rompere le regole della tradizione.
Al numero 3 della stessa strada, apriva i battenti modesti ma provvidenziali, un bistrot, potremmo definirlo un'osteria, tenuto dalla leggendaria Rosalia Tobia, donna di cui s'è conservato a lungo il ricordo, che era arrivata a Parigi nel 1887, appena ven
tenne, cameriera della principessa Ruspoli. In seguito aveva posato come modella per William Adolphe Bouguereau, che aveva lo studio nel quartiere, al 75 di rue Notre-Dame-des-Champs, e che amava dipingere opulente nudità femminili. [...] Con il trascorrere degli anni, Rosalia (diventata Rosalie) aveva abbandonato il mestiere di modella trasformandosi in mère nourricière, in nutrice, quasi sempre a credito, di artisti affamati. I suoi pentoloni di pastasciutta, che cucinava aiutata dal figlio Luigi, sfamarono, a partire dal 1909, per quasi un ventennio e con rara equità, i muratori dei cantieri per la costruzione delle nuove case nella zona e i pittori che facevano capolino dai loro gelidi atelier col ventre "bucato" da una dieta involontaria.»

Il racconto di Augias è seducente, sinuoso, risuona ancora dentro di me, che inseguo volti di fantasmi nella frizzante aria del mattino. Il primo in cui mi imbatto è quello di una donna bellissima, Alice Prin, entrata di diritto nella storia dell'arte col famoso appellativo di Kiki di Montparnasse. E' fuggita a un destino imposto - quello di fornaia al quale l'umile madre avrebbe voluto consacrarla - per inseguirne uno più grande, più clamoroso, col suo corpo elegante sotto i lunghi cappotti neri contro i rigidi inverni del nord, con la sua sensualità ostentata e un pò provocatoria, e una vicenda umana che Ernest Hemingway - suo amante per un certo periodo e prefatore ammirevole dell'unica autobiografia ricavata da lettere e diari - non mancherà di ritrarre con parole di sincera ammirazione.

Abbandono Kiki tra i rumorosi frequentatori del suo bistrot prediletto, lascio Modigliani e Jeanne - il cosidetto Cygne de Livourne e l'infelice compagna dalla storia tragica - alla solitudine spaventosa dei loro giorni maledetti, e vago, approdando finalmente all'alberghetto che ho scelto per questo primo approdo alla capitale del gusto e della bellezza. Il nome è indicativo di ciò che voglio, dei sogni che intendo avvalorare. L'insegna è posta in alto, sull'ingresso, e recita in caratteri estremamente moderni Montparnasse Rive Gauche. La riva degli artisti, mi dico. Mi piace. Siamo al 22 di rue Hippoliyte Maindron. Penultima camera del terzo piano. L'ambiente è pulito, silenzioso, misuratamente accogliente. L'affaccio splendido: una traiettoria di tetti in fondo alla quale, accanto a un minuscolo giardino recintato, riesco a scorgere lo studio che fu di Giacometti. Nel ripassarci davanti, due volte al giorno, mi soffermo sulla targa che sembra gridare alla distrazione dei passanti. Sarà qui che alloggeremo. Il cielo, alto oltre le fioriture di ferro della finestra, è chiaro, innocente, sembra brillare. Solo qualche nube lontana ci riporta alla vocazione climatica caratteristica della città di Rimbaud e Verlaine.

Spiegato il frusciante lenzuolo della cartina e tirate fuori le recenti annotazioni di percorso mi accorgo che la geografia degli spazi - quelli lungamente inseguiti, attesi, desiderati - è ben diversa da quella che propinano le guide di più o meno vecchia data. Parigi è la mia, la nostra Parigi, una città che somiglia veramente poco a quella indicata dai propositi turistici. Sarebbe bello disegnarne un'altra, sulla scorta delle suggestioni, delle illusioni, delle aspettative, dei sogni, una città fatta di tante altre città diverse, una città nella città, ritagliata a se stessa, sottratta, fiorita come un miracoloso sboccio.

Scegliamo di cominciare esattamente dalla fine, dalle tombe, ultimo contatto con coloro per cui siamo venuti. Fra i tre cimiteri parigini partiamo da quello del quartiere - il cimitero di Montparnasse - che ci accoglie nel primo mattino languidamente piovoso di permanenza in città. Ci arriviamo dall'ingresso laterale, ma stamani niente mappe. Inadempienze comunali impediscono al visitatore un facile movimento tra i resti illustri. Fisso l'assonnato custode che sporge la testa dalla guardiola, mostrando l'enorme tabellone che sorge come una lavagna a qualche passo di distanza.

Primo sguardo: primo solletico allo stomaco. Charles Baudelaire, l'angelo nero dello spleen, il sognante cantore del male, l'alato Satana delle lettere francesi riposa lungo un pendio, in un intrico di lapidi e croci poco visibile a un'occhiata disattenta. E' il primo morso vero, la prima ferita che Parigi mi procura. Mi chiedo se sia rispettoso fotografare, ma non resisto alla tentazione, e credo di udirla davvero, la sua toccante supplica alla bellezza. Inferno o cielo, che importa? Al fondo del mistero per trovare il nuovo!

I resti mortali del massimo poeta dell'Ottocento sono stati composti insieme a quelli della sua famiglia. La madre. L'orribile patrigno. L'uomo che inflisse all'animo ancora acerbo del giovane genio la prima inguaribile cicatrice. Ma i doni di coloro che mi hanno preceduto in questo mio cammino sono davvero toccanti: accendisigari, piante, biglietti, sassolini, fogli stracciati contenenti messaggi traboccanti di tenerezza. Cerco di prenderne nota mentalmente. Ancora una volta l'immaginazione prevale e le immagini si cristallizzano sotto gli occhi sedotti, e mi ritrovo nel piccolo drappello che incede sotto la pioggia invernale, al termine di un'esistenza del tutto fuor del comune, rielaborata dall'acuto giudizio di Jean-Paul Sartre.

Il grande scrittore e filosofo parigino scrive infatti di Baudelaire: "Non ha avuto la vita che meritava. Certo non meritava quella madre, quelle eterne angustie finanziarie, quel consiglio di famiglia, quall'amante tirchia, né quella sifilide; e che di più ingiusto della sua fine prematura? Tuttavia, riflettendoci, un dubbio sorge: l'uomo, a studiarlo, non è senza falle né, si direbbe, senza contraddizioni: questo perverso ha adottato una volta per tutte la più banale e la più rigida delle morali; questo raffinato frequenta le più miserabili prostitute, questo solitario ha una paura spaventosa della solitudine, non esce mai senza un amico, aspira a una casa, a una vita famigliare; questo apologista dello sforzo è un "abulico" incapace di costringersi a un lavoro regolare; ha lanciato degli inviti al viaggio, anelato all'evasione, sognato paesi sconosciuti, ma esitava sei mesi prima di partire per Honfleur e l'unico viaggio che abbia fatto gli è parso un lungo supplizio."

Proprio sul versante diametralmente opposto della collina, un'altra tomba è quella che chiama all'incanto. A scovarla, nell'intrico del sovrabbondante panorama cimiteriale, è l'attempato signore parigino che scorgiamo quasi per caso, e che intuisce la nostra incertezza, venendoci incontro e indicando col dito un punto poco più avanti, dove le croci si abbassano e le statue si addensano in una lenta danza senza vita. Per di qua, dice il vecchio, senza neppure degnarci d'uno sguardo, e senza domandarci chi cerchiamo. Ha capito, e procede, catturato dalla serietà della missione. Lo seguiamo senza aggiungere nulla, segretamente grati della gentilezza.

L'altro grande "malato" della letteratura frances
e, il poeta della Senna e del mondo dei canottieri, l'uomo scisso, dalle due anime, una lucente come il candore, l'altra nera come la più orribile delle notti, colui che Savinio definì come "altro" da se stesso, Guy de Maupassant, riposa sotto l'imponente altare di pietra sorretto da due colonne di altezza umana, al centro delle quali spicca la scultura di uno sgargiante libro rosso. Mi soffermo per un attimo sulla gonfia rosa scarlatta che qualcuno ha lasciato accanto al libro. Penso alle mani, a quelle mani piene di riconoscenza e mi lascio intenerire dalla mistica delle testimonianze e dei ricordi.

Quando sollevo gli occhi dalla tomba, nel merletto verdebosco delle foglie le facciate dei palazzi mi fanno pensare alla bellezza - bellezza delle case, dei tetti, bellezza di questo incontro magnifico tra morte e vita, tra lapidi e città, tra memoria e presente. Il cimitero di Montparnasse - ma non è il solo - si trova racchiuso da un recinto di bassissime mura: gli ampi finestroni, gli oblò incassati nelle maestose superfici d'ardesia, le metalliche aperture degli edifici - metalliche e dure come la luce del mattino, come la metallica passione d'amore di Baudelaire, come i metallici infissi che scrivono ghirigori di ferro battuto sulla linea di qualsiasi orizzonte - tutto mi parla di un dialogo ininterrotto, amoroso, quella confessione ronzante che riprende ogni giorno, a indicare una qualche religione degli affetti. Non mi stupisce che la verde rotonda che divide gli spazi del cimitero accolga frotte di turisti che siedono sulle panchine ad addentare appetitosi tramezzini. Qui la morte è lontana dai punitivi tremori cattolici di geli eterni e di inestinguibili incendi infernali, e la pace del pomeriggio è incrinata solo dallo stridere di un corvo: nero, regale, elegante pure esso, mentre saltella appresso a una foglia accartocciata dall'arrivo di un autunno prematuro.

Lo seguiamo per un tratto breve, e m'impongo di vincere la mia ancestrale angoscia per i volatili. Alessio mi precede lungo marmi che riportano alla mente altri celebri figli di questa città unica al mondo: Eugène Ionesco, Philippe Noiret, Julio Cortàzar. Poi, il corvo vola lontano, fino a sparire nell'arabesco buio dei rami, dentro cui sembra che l'ultima luce si vada spegnendo. Il mio primo giorno a Parigi si conclude, lasciandomi dentro una tensione e un languore sordo, qualcosa che è incapace di diventare dolore. Victor Hugo parla di una città dello spirito, nella quale continuare a credere nonostante tutte le sue pretese di trasformismo. E' una Parigi carnale, d'altri tempi, che quest'oggi sono certo d'aver incontrato. Sorrido osservando le morbide onde di fango che ancora ricoprono il fondo dei miei mocassini. Un dono della passeggiata, mi dico. E che bel dono. Sono certo che domani ce ne saranno altri.


la foto di Kiki de Montparnasse è di proprietà del sito:
http://members.xoom.it/man_ray/kiki.jpg

la foto di Charles Baudelaire è di proprietà del sito:
http:/www.statueinresina.com/statue_su_commissione/Charles_Baudelaire.jpg

le citazioni provengono dalle seguenti opere:

Corrado Augias, I segreti di Parigi, Mondadori;
Jean-Paul Sartre, Baudelaire, trad. di Jacopo Darca, Mondadori;

le altre foto sono di Alessio Grillo, che si ringrazia
per la gentile collaborazione